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In genere la definizione più comune dell’adolescente è che si tratta di un individuo che non è più un bambino, ma che non è ancora un vero adulto: forse è una definizione scarsa e confusa dal punto di vista scientifico, ma probabilmente la più efficace per descrivere la complessità del fenomeno chiamato adolescenza (Moshman, 2005; Hopkins, 2014).
Nel discutere di adolescenza va anzitutto considerata l’elevata variabilità tra gli individui, tenendo conto del fatto che le diverse società definiscono l’adolescenza, in termini di età e ruoli sociali, in modo spesso diverso (Sawyer et al. 2012 ). Inoltre, va detto che la maggior parte delle società umane, nel corso della storia, non ha riconosciuto l’esistenza di un’epoca chiamata “adolescenza”, almeno come noi la intendiamo, e dunque si tratta di un concetto relativamente moderno (Kett, 1977; Hine, 1999; Hopkins, 2014).
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L’inizio dell’adolescenza viene comunemente identificato con la pubertà, cioè con il passaggio biologico verso la vita adulta, che è universale nella specie umana, anche se l’età in cui si verifica può variare a seconda delle caratteristiche individuali e ambientali.
Il miglioramento delle condizioni economiche e materiali, come l’igiene nell’infanzia , la nutrizione, la salute ecc. sembrano aver giocato un ruolo di primo piano nei paesi con buone condizioni socio-culturali, i quali garantiscono ai giovani una formazione più lunga, un ritardo nell’entrata nel mondo del lavoro, un matrimonio tardivo rispetto all’entrata nell’età fertile. Tutto questo ha esteso la durata dell’adolescenza e cambiato la sua forma, dato che le soglie sono state spostate in avanti nel tempo, quando cioè l’individuo viene legalmente considerato un adulto per quanto riguarda i suoi diritti e doveri di natura politica, giuridica, militare, ecc. (Sawyer et al., 2012).
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Questo discorso tuttavia non vale per tutti i paesi del mondo: il fenomeno dell’adolescenza cambia molto se visto da una parte del mondo o dall’altra, visto che il suo inizio dipende da caratteristiche biologiche comuni, ma il suo termine dipende soprattutto da fattori culturali e sociali.
Parlando in generale dunque si può trovare una definizione comune considerando l’adolescenza come l’età che segue la pubertà e precede la maggiore età, in cui i giovani membri delle diverse società subiscono riti specifici di passaggio, che prendono la pubertà come soglia simbolica oltre la quale un bambino comincia a diventare adulto. In questo periodo il corpo, compreso il cervello, cambia progressivamente fino a raggiungere lentamente una fase matura (ma non definitiva, visto che lo sviluppo non cessa mai).
L’adolescente oscilla tra due centri di gravità: uno di questi è la consapevolezza e l’aspettativa che presto diventerà adulto: ha un’idea, sia pure approssimativa, di ciò che questo significa, e per questo si impegna nello studio o nell’apprendimento di competenze che lo aiuteranno a raggiungere i suoi obiettivi di vita adulta. L’altro centro di gravità cui l’adolescente tende è il desiderio di godere del maggiore spazio di libertà che la società gli permette (molti contesti sono più tolleranti verso il “comportamento adolescenziale”, altri meno, o non completamente).
Durante l’adolescenza infatti il soggetto comincia a manifestare comportamenti autonomi nei confronti del mondo esterno: applica le competenze sociali che ha acquisito in casa, a scuola e attraverso i media durante l’infanzia e, nello stesso tempo, conosce molte altre cose, frequentando gli amici o i primi fidanzatini, per i primi amori e le prime esperienze sessuali.
L’adolescenza è dunque una fase cruciale dello sviluppo umano, per la comprensione che un soggetto acquisisce, in tale periodo, su se stesso, sui propri sentimenti e desideri, sui propri modi di ragionare, sulle proprie reazioni al mondo esterno, sulle proprie sensazioni interiori.
Diversi studi mostrano come le reti sociali cambiano in tutta la durata della vita: le interazioni durante l’infanzia normalmente avvengono all’interno della famiglia o in ambienti quasi-familiari, come la scuola primaria. La rete sociale globale comincia a crescere durante l’adolescenza, quando i soggetti acquisiscono autonomia emotiva e comportamentale nei confronti dei genitori, che tende poi gradualmente a diminuire in tutta l’età adulta ( Wrzus et al., 2013).
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La rete sociale di un adolescente dunque diventa più ampia, ma anche più impersonale. Gli adolescenti sono coinvolti in situazioni che richiedono loro di assumere un ruolo nella scuola secondaria, o nei luoghi di lavoro e vi sono aspettative, nei loro confronti, di comportamenti formali e responsabili.
Questa è l’età infatti in cui si diventa maggiorenni e si può cominciare a leggere una notizia, prendendo una posizione politica, partecipando a manifestazioni o, in contesti più difficili, imparando a usare, più o meno volontariamente un’arma da guerra.
E’ interessante notare che l’attuale generazione di persone adolescenti, di età compresa tra 10 e 24 anni, è il numero più grande di persone mai avute nella storia: si tratta di 1,8 miliardi di persone, cioè un quarto della popolazione mondiale. Quasi il 90% di questi individui vive in paesi a basso o medio reddito, dove, a causa dei tassi di fertilità più elevati, essi costituiscono una proporzione molto maggiore della popolazione presente nei paesi ad alto reddito (WHO, 2009). In questi paesi possano, legalmente o illegalmente, essere utilizzati o sfruttati come schiavi, prostitute, soldati, o anche attentatori suicidi.
E’ dunque molto importante studiare questa età della vita, anche perché non dobbiamo dimenticare che molti disturbi psicologici iniziano in questo periodo: disturbi psicotici, disturbi d’ansia, disturbi dell’umore, abuso di sostanze, ecc. L’insorgenza della schizofrenia, per esempio, si verifica in genere nella tarda adolescenza o all’inizio dell’età adulta (Häfner e an der Heiden, 1997; van Os e Kapur, 2009; WHO, 2015). Inoltre, l’incidenza dei disturbi dell’umore e delle disfunzioni legate all’ansia aumenta durante l’adolescenza (Hankin e Abramson, 2001; Costello et al., 2002).
Inoltre, va osservato che in questo periodo della vita gli individui sono probabilmente più dinamici, più forti e più resistenti alle malattie ma, allo stesso tempo, le loro probabilità di morire aumentano, perché i ragazzi si mettono spesso a rischio per le risse, l’aggressività, la criminalità, la promiscuità, la guida spericolata, l’uso di droghe, ecc. Ne consegue che proprio tali comportamenti a rischio, dovuti ad un diminuito controllo di se, ricerca di sensazioni forti e pressione dei pari, sono la prima causa di morte in questa fascia di età (Casey e Caudle, 2013).
La salute fisica e mentale degli adolescenti è dunque influenzata da una complessa interazione di fattori individuali e sociali a livello personale, familiare, comunitario e nazionale (Viner et al., 2012), oltre che dalle differenze individuali nelle abilità cognitive (Romer et al. , 2011), la storia individuale di attaccamento (Bowlby, 1988), e i tratti di personalità.
Una migliore comprensione di questo periodo della vita e delle sue caratteristiche è quindi utile e auspicabile, per attuare politiche di prevenzione.
Dr. Giuliana Proietti
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Fonte:
Brizio A, Gabbatore I, Tirassa M, Bosco FM. “No more a child, not yet an adult”: studying social cognition in adolescence. Frontiers in Psychology. 2015;6:1011. doi:10.3389/fpsyg.2015.01011.
● Attività professionale online
● Terapie individuali e di coppia
● Saggista e Blogger
● Collaborazioni professionali ed elaborazione di test per quotidiani e periodici a diffusione nazionale
● Conduzione seminari di sviluppo personale
● Co-fondatrice del sito Clinica della Timidezza e dell’attività ad essa collegata, sul trattamento dell’ansia, della timidezza e delle fobie sociali.
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Ogni persona coltiva fin dall’infanzia il sogno di poter incontrare una persona di cui innamorarsi e con la quale fare coppia tutta la vita. La cosa ci si aspetta che accada in modo naturale: nessuno pensa di incontrare il partner in una agenzia matrimoniale o in un sito di incontri…
Incontrarsi in modo “naturale”
I sociologi francesi Michel Bozon and François Héran [1] hanno studiato dove le future coppie normalmente si incontrano. Essi hanno distinto tre tipi di posti: luoghi pubblici (aperti a tutti, come bar, negozi, parchi, ecc.), luoghi riservati (il cui accesso non è pubblico, ma è riservato ad alcuni soggetti in base a specifici criteri, come i luoghi di lavoro, le università, ecc.) e luoghi privati, come ad esempio una casa privata, frequentata da parenti e amici di una determinata famiglia.
All’inizio del secolo scorso le persone, secondo questi autori, tendevano ad incontrarsi in luoghi prossimi alla propria abitazione o frequentati dalla propria famiglia, come le case di amici o la chiesa. Ci si incontrava dunque prevalentemente in luoghi “privati. A partire dalla metà del secolo scorso vi è stato però un cambiamento molto importante, in quanto le coppie hanno iniziato a conoscersi grazie alla presentazione fra amici o, ancora più spesso, grazie all’incontro in luoghi pubblici, come nei locali o nei luoghi di vacanza. I luoghi riservati tuttavia, secondo questi autori, “funzionano” sempre più dei luoghi pubblici e il posto di lavoro è, in assoluto, il più diffuso luogo di incontro per gli adulti, così come la scuola lo è per i più giovani.
Il momento più propizio per gli incontri, seconda la ricerca condotta da questi autori, sono la stagione estiva ed i periodi di vacanza. Al secondo posto in questa particolare classifica troviamo l’autunno, per il rientro a scuola o al lavoro, dopo un periodo di allontanamento, mentre la primavera, malgrado le credenze in proposito, non sembra un periodo particolarmente privilegiato per i colpi di fulmine.
Quando l’incontro tarda ad arrivare in modo casuale, si comincia a pensare a qualche strategia facilitante, che possa permettere un incontro con una persona a sua volta interessata a cercare un partner. Spesso ci si rivolge agli amici o ai conoscenti (Hai qualcuno/a da presentarmi?), altre volte ci si iscrive ad un sito di incontri o si cerca di contattare nuove persone via social media.
Prima della diffusione di Internet chi voleva in qualche modo “dare una mano al destino” si rivolgeva a speciali agenzie, che avevano il compito di presentare fra loro persone con delle affinità: le agenzie matrimoniali.
Sebbene esistano ancora, il loro boom si è avuto negli ultimi decenni del secolo scorso. In ogni caso, in tutte le città e in tutti i paesi, già prima della diffusione delle agenzie matrimoniali, operavano i “sensali”, i quali, trattando affari di tutti i tipi, si occupavano anche di questo e ricevevano un compenso ad esito raggiunto (in termini giuridici si parla di “prossenetico matrimoniale”).
Il “prosseneta”, come riporta il Gabrielli nel Dizionario della lingua italiana, era colui che, nell’antica Grecia, prestava assistenza agli stranieri ospiti nel territorio ellenico, provvedendo alle loro necessità. Questo vocabolo fu poi usato per indicare tutte le persone che svolgevano una mediazione fra cittadini, al fine di soddisfare le loro esigenze. La parola per indicare chi procurava o agevolava incontri a scopo matrimoniale era però un’altra: “ruffiano”, usata non solo come termine volgare, ma anche dispregiativo.
L’attività dei prosseneti matrimoniali è stata infatti considerata con diversa empatia a seconda dei tempi e dei popoli: ad esempio Giustiniano aveva stabilito che il sensale di matrimoni dovesse ricevere una somma proporzionata all’entità della dote. Nel Medio Evo il diritto canonico vietò questa intermediazione, anche se di fatto fu praticata ugualmente, anche perché rispondente ad una funzione di pubblico interesse.
Il codice napoleonico accettò la mediazione sul matrimonio, purché fosse volta a favorire delle unioni legittime, ma nel 1865 questa legge fu annullata e la pratica fu di nuovo considerata immorale e antisociale.
In Italia il diritto vigente non prevede l’istituto della mediazione matrimoniale e ciò ha causato vari scontri dottrinali e giurisprudenziali sulla sua liceità e natura. Il matrimonio infatti non può essere considerato un “affare”, ma un istituto che esula dall’ambito ordinario dei contratti e non tollera interferenze di terzi o limitazioni alla libera determinazione della volontà. Per questo il “prossenetico matrimoniale” viene considerato “obiettivamente immorale e come tale illecito, tutte le volte che si risolva in una pressione diretta o indiretta sul consenso degli sposi”.[2]
Per questa ragione chi svolge questo particolare lavoro non deve mai ricevere un compenso collegato alla celebrazione del matrimonio delle due persone che ha fatto conoscere, ma lo può ricevere solo per l’attività svolta di catalogazione e agevolazione della conoscenza fra soggetti, in base a specifici requisiti ed affinità. Deve essere dunque esclusa ogni pressione di natura patrimoniale sulla volontà matrimoniale dei clienti dell’agenzia matrimoniale o del sensale vecchio stampo.
In Italia per decenni le agenzie matrimoniali, per operare, hanno dovuto chiedere una licenza di pubblica sicurezza, rilasciata dal Questore della provincia in cui l’agenzia matrimoniale aveva luogo, mentre oggi con la modifica del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS) questa autorizzazione è stata considerata obsoleta e difatti non è più necessaria: basta una semplice comunicazione al Questore.
Chi si rivolge ad una organizzazione cui affidare la ricerca del proprio partner in primis si aspetta di conoscere delle persone rispondenti ai propri desideri. Le persone che usufruiscono fi questi servizi in genere hanno scarse relazioni sociali o sono sopraffatte da incessanti ritmi lavorativi, o hanno scarsa libertà personale, a causa di figli piccoli, ecc. Va detto anche che una persona separata, che giustamente aspira a trovare un nuovo partner, non può tornare adolescente e frequentare le discoteche per favorire gli incontri, ma anzi non vuole perdere tempo in incontri sbagliati e desidera incontrare, in modo riservato e veloce, un partner adeguato alle proprie esigenze.
Le modalità che ha l’agenzia matrimoniale per organizzare gli incontri sono di vario tipo: il modo più classico è quello di mettere in contatto le due persone, facendole incontrare nei locali dell’agenzia o in altri luoghi, ma queste organizzazioni propongono anche feste, viaggi e crociere, in cui cercano di facilitare la conoscenza fra persone affini.
Oggi in molti locali pubblici si propone il modello dello speed-date, cioè l’organizzazione di incontri veloci, in cui si capisce in pochi minuti se si ha desiderio di rivedere la persona appena conosciuta o no. Questo è un metodo molto efficace, perché è veloce e perché è sicuramente meglio scambiare qualche parola con un potenziale partner, per vedere che emozioni suscita lo stare insieme. Se le emozioni sono nulle, in genere si sceglie di non rivedere le persone incontrate in questo modo.
Internet (social network e siti per incontri) ha naturalmente rivoluzionato l’intero settore, lasciando sempre meno spazio al caso, permettendo agli interessati di selezionare in modo autonomo i potenziali partners da frequentare, scegliendo il loro aspetto fisico e le caratteristiche gradite di personalità. Le persone si conoscono dunque prima virtualmente su Internet e poi, se la coppia sembra funzionare, ci si incontra anche nella realtà.
Rispetto alle agenzie matrimoniali dei vecchi tempi questo sistema è sicuramente più riservato, più veloce, più efficace, ma si corre maggiormente il rischio di imbattersi in persone sbagliate. L’agenzia matrimoniale infatti in qualche modo faceva da filtro agli incontri con persone problematiche, in quanto questi soggetti venivano eliminati dall’elenco dei clienti per il buon nome dell’organizzazione. Sui siti online, poco si sa delle persone iscritte e i pochi che vengono cancellati dalle liste, devono avere storie di vita davvero eccezionali.
Inoltre, Internet ha modificato profondamente il modo in cui si forma la coppia, in quanto permette a persone che mai si sarebbero altrimenti incontrate (per ragioni di distanza, di interessi, di ceto sociale, di età anagrafica, ecc.) di potersi conoscere e frequentare.
In una ricerca del 2009 [3] si è scoperto che circa il 6% delle coppie sposate del Regno Unito si erano incontrate online, in Spagna erano il 5% e in Australia il 9%. Se ci si concentra sugli incontri avvenuti nelle fasce più giovani della popolazione, le percentuali sono molto più elevate: si sono infatti conosciuti online il 42% delle coppie tra i 26 e 35 anni negli Stati Uniti e il il 21% delle coppie sposate, tra i 19 e 25 anni, nel Regno Unito. Come si vede le percentuali sono molto elevate, tanto che in inglese si parla ormai di ‘relationshopping‘, cioè della possibilità di acquistare relationships attraverso lo shopping.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le ricerche mostrano che i siti di incontri online sono frequentati da persone piuttosto socievoli, con un’elevata stima di sé e scarsa ansia sociale [4]. La motivazione a iscriversi ad un sito di incontri nasce sovente da un evento scatenante della vita, come una rottura sentimentale ma, nel complesso, le motivazioni delle persone sembrano più di ordine sociale che personale (mancanza di tempo, difficoltà logistiche a frequentare luoghi sociali di incontro, ecc.). [5]
In questo tipo di incontri si cerca anzitutto di piacere all’altro sia dal punto di vista psicologico, sia fisico, magari barando un po’ sulle proprie caratteristiche. In una ricerca del 2008 [6] è stata misurata la reale altezza e il peso di questi iscritti ad un sito online e sono stati controllati i loro documenti per verificare i dati anagrafici. Risultato: nove su dieci avevano mentito su almeno uno degli attributi misurati.
Soprattutto i cuori solitari barano sul peso, nella speranza forse di poter riconquistare in poco tempo una forma perfetta (dev. 5%); sull’età si mente, ma di meno (dev. 1,5%) così come sull’altezza (dev. 1,1%). Sono state riscontrate differenze di genere sulle menzogne rispetto alla propria descrizione fisica: le donne di solito si calano il peso, gli uomini si danno una “spintarella” sull’altezza.
Quanto alle immagini postate nel proprio profilo, una ricerca del 2010 ha verificato [7] quanto le foto postate somigliassero alle persone reali: si è visto che tutti avevano scelto in assoluto le loro foto migliori, ma nel complesso le differenze riscontrate non erano poi così rilevanti.
Le immagini che più colpiscono nei siti di incontri, come ha valutato una ricerca del 2010 [8] analizzando settemila fotografie sono, per il sesso femminile, quelle in cui il soggetto guarda verso la macchina fotografica e sorride. Le immagini meno efficaci per le donne sono quelle in cui esse guardano altrove.
Gli uomini maggiormente scelti per un incontro sono quelli non particolarmente sorridenti (gli uomini “sorridenti” ricevono scarsi messaggi di interesse). Le conversazioni più lunghe online sono risultate quelle con persone che nella foto stavano facendo qualcosa di interessante, oppure erano con un animale, o erano ritratte in una foto di viaggio. Minore interesse è stato invece mostrato nei confronti di persone che nella foto apparivano a letto, o erano all’aperto, o si stavano divertendo con degli amici, o stavano bevendo (queste ultime foto in particolare hanno registrato il minore interesse in assoluto).
Anche negli incontri online vale la legge dell’affinità: esaminando i dati di 65.000 cuori solitari online [9], si è scoperto che le persone si scelgono principalmente in base alle loro somiglianze (zona geografica, interessi comuni, religione, o particolari condizioni mediche). Le persone che si scelgono su Internet tuttavia mostrano una maggiore disparità nell’età e nella formazione culturale rispetto a coloro che si incontrano in modo naturale.[10]
Evidentemente, se ci si piace nelle cose più essenziali, si tende poi a passare sopra a particolari che in fondo non sono (o non sembrano) essenziali.
A distanza di una settimana dopo il primo contatto, il 51% delle persone iscritte ad un sito di incontri si conosce realmente [11].
Quando scatta la scintilla dell’amore e della passione la prima cosa che si dimentica e della quale non si desidera parlare è come ci si è conosciuti, forse perché l’unico rimpianto che resta è quello di non aver potuto beneficiare di questo dono dell’amore in modo gratuito dalla vita, ma di aver dovuto impegnarsi anche per raggiungere ciò che ad altri capita in modo naturale.
Come sempre però, contano di più gli obiettivi raggiunti che il come essi siano stati raggiunti. E aver trovato finalmente l’amore non è affatto poco… Comunque lo si sia trovato!
Dr. Giuliana Proietti
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Uno studio greco pubblicato nel 2015 (Vandoros S, Kavetsos G.) si è chiesto se un improvviso annuncio di catastrofe finanziaria possa avere l’effetto di influenzare negativamente chi riceve la notizia, tanto da spingerlo d’impulso al suicidio. Oppure la decisione di togliersi la vita ha bisogno di tempo per maturare? Naturalmente la grave crisi finanziaria in Grecia ha permesso di attenersi ai fatti di cronaca, senza bisogno di simulazioni in laboratorio.
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Negli ultimi anni infatti, la Grecia ha dovuto affrontare una recessione molto profonda e una riduzione senza precedenti dei livelli di reddito e di occupazione. Avendo un enorme debito pubblico, la Grecia è stata salvata nel 2010 dall’Unione Europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. In cambio, la Grecia ha dovuto attuare una serie di misure di austerità che hanno coinvolto ampi tagli a stipendi e pensioni, aumenti delle imposte dirette e indirette, nuove tasse, nuovi prelievi di proprietà, ecc.
L’intera popolazione ha sofferto grandi difficoltà economiche, come ad esempio, l’inaspettata perdita del posto di lavoro, tagli allo stipendio, difficoltà di ottenere prestiti e mutui, il tutto accompagnato dalla riduzione delle prestazioni sociali, come i sussidi di disoccupazione. A livello psicologico la popolazione ha avvertito una perdita di speranza per le prospettive future. Il tasso di disoccupazione si è quasi triplicato (dal 9,5% al 27,3%), il reddito delle famiglie è diminuito del 28,4% e il paese ha perso il 26% del suo PIL.
La conseguenza di queste misure è stata un forte incremento complessivo dei suicidi: da 377 a 2010 si è passati a 477 nel 2011 (aumento del 26,5%) e 508 nel 2012 (6,5% di aumento a partire dal 2011 e il 34,8% di aumento rispetto al 2010). Questo aumento non è sorprendente, data l’evidenza dell’impatto delle difficoltà economiche sui suicidi, già riscontrata in diversi studi (Beautrais et al., 1997, Rich et al., 1991, Barr et al., 2012, De Vogli et al., 2012, Bernal et al., 2013 Karanikolos et al., 2013). Si sa che la perdita di reddito e di occupazione influenza lo status sociale degli individui, e potrebbe condurre a disturbi mentali (Kerr, 2008). Inoltre vi sono evidenze che gli abusi domestici diventano molto più frequenti in tali circostanze, tanto da portare alcune persone al suicidio (Gibson Davis et al, 2005, Counts, 1987.). La salute stessa può peggiorare durante le recessioni e anche questo dato è associato con i suicidi (Gerdtham e Johannesson, 2003 Tapia Granados e Diez Roux, 2009).
Il grado di misure di austerità attuate in Grecia, ha attratto l’interesse degli studiosi, soprattutto per quanto riguarda il comportamento suicidario (Antonakakis e Collins, 2014). La comprensione, infatti, dei comportamenti delle persone in questi momenti di difficoltà è fondamentale per gli operatori sanitari e per le agenzie di prevenzione, al fine di informare meglio la popolazione sugli interventi di prevenzione e sui servizi di supporto messi a disposizione.
In studi precedenti si è osservata l’importanza che hanno, nell’immediato, i risultati negativi delle partite di calcio sui comportamenti violenti tra coniugi e sull’infarto del miocardio (Card e Dahl 2011, Kirkup e Merrick 2003, Carroll et al., 2002). Un effetto immediato, anche se di breve durata, è stato riscontrato a seguito degli annunci di austerità in Grecia sul numero degli incidenti stradali: le misure di austerità producono infatti stress, ansia e altri disturbi mentali, che portano a loro volta scarsa attenzione o comportamenti aggressivi mentre si guida ( Vandoros et al., 2014).
Lo studio greco sui suicidi in seguito alla crisi economica ha analizzato il periodo 01/01 / 2010 – 31/ 10/2011, durante il quale sono state annunciate una serie di misure di austerità. La natura quotidiana dei dati ha permesso di identificare gli effetti immediati degli annunci.
Risultato:
I suicidi attribuiti alla crisi possono essere in realtà il risultato di un processo mentale molto più complesso e di lungo termine. I risultati suggeriscono che un aumento della disoccupazione di 1 punto percentuale porta ad un ulteriore aumento dei suicidi di 1,8 persone al mese, il che è degno di interesse se si considera che la disoccupazione è aumentata di 17,8 punti percentuali nel corso del periodo di studio. Tuttavia, il tasso dei suicidi non aumenta immediatamente nei primi giorni dopo ogni evento negativo.
Questo suggerisce che i suicidi non sono atti compiuti d’impulso: sono piuttosto decisioni che richiedono tempo per maturare. Il lasso di tempo fra annuncio negativo e suicidio implica che i suicidi attribuiti agli eventi negativi subiti sono, in linea di principio, prevenibili e sottolinea l’importanza dei servizi di salute mentale per fare prevenzione.
Fonte:
Vandoros S, Kavetsos G. Now or later? Understanding the etiologic period of suicide. Preventive Medicine Reports. 2015;2:809-811. doi:10.1016/j.pmedr.2015.09.009.
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L’ascolto della musica può essere una risorsa per la manipolazione attiva degli stati della mente, in quanto permette di raggiungere una visione più ottimista della realtà, evoca sentimenti empatici e di coesione sociale, con senso di affiliazione, e suscita sentimenti di ricompensa. Per queste ragioni, dunque, la musica potrebbe essere uno strumento per aiutare le persone ad essere più sicure di sé e rilassate nei contesti sociali, mantenendo un alto livello di autostima. Segue una rassegna di studi condotti sulla musica e sulla sua funzione psicologica e sociale.
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L’evidenza storica ed empirica mostra che la musica ha una profonda capacità di evocare sensazioni positive e piacevoli in chi l’ascolta. In alcuni casi può trattarsi di un’esperienza intensa, capace di cambiare la vita(Gabrielsson, 2011) ma può anche produrre piccoli cambiamenti del tono dell’umore nella vita quotidiana(Hargreaves e North, 1999). Molte ricerche hanno sottolineato il ruolo della musica nello sviluppo personale(Larson, 1995; Ruud, 1997; DeNora, 1999; North e Hargreaves, 1999), nell’identità sociale (Tarrant et al, 2001; Shepherd e Sigg, 2015), nella personalità(Rentfrow e Gosling, 2003), e nella percezione interpersonale(Rentfrow e Gosling, 2006).
La musica riesce a trasmettere molta energia: secondo Maksimainen e Saarikallio (2015), la sensazione di empowerment che essa trasmette è tra le emozioni più intensamente esperite nella vita di tutti i giorni. L’empowerment può avvenire sia a livello collettivo sia a livello individuale e può coinvolgere aspetti diversi, come l’autostima, la resilienza, la crescita e il cambiamento(Travis, 2012), ma anche la responsabilizzazione a livello individuale.
La capacità della musica di evocare emozioni è stata un argomento di ricerca di notevole interesse negli ultimi due decenni (Juslin e Sloboda 2010), ma il modo in cui l’ascolto della musica aiuti davvero le persone a mantenere delle auto-valutazioni positive e a migliorare la propria autostima ha ricevuto poca attenzione.
Intervista sull'ipnosi
Brown e Mankowski (1993) hanno mostrato che i cambiamenti di umore indotti dalla musica influenzano le auto-valutazioni. Gli autori hanno scoperto che le persone che avevano ascoltato musica allegra si valutavano più positivamente rispetto alle persone che avevano ascoltato musica triste. È interessante notare che i cambiamenti nell’autovalutazione sono stati più pronunciati negli ascoltatori che avevano riferito di avere una bassa autostima. In particolare, dopo l’ascolto della musica triste, gli ascoltatori con bassa autostima si valutavano più negativamente degli ascoltatori con alta autostima. Recenti evidenze empiriche confermano l’idea che l’ascolto della musica possa influire momentaneamente sull’autostima (Elvers et al., 2015). Questi autori hanno scoperto che dopo l’ascolto di canzoni pop che sono state percepite come motivanti ed espressive di pensieri positivi, le persone hanno riportato livelli significativamente più elevati di autostima.
Da un punto di vista storico, La Repubblica di Platone ci parla di come la musica possa essere capace di dotare gli individui di atteggiamenti e caratteristiche di cui hanno bisogno per far fronte alle sfide della vita quotidiana. Gli etnomusicologi hanno documentato i vari modi in cui la musica e la danza ritualizzate servano per visualizzare il prestigio, la forza e il potere (Dissanayake, 2006).
Si pensi al grido di battaglia Maori “Haka” (Rugby World, 2015) che viene regolarmente eseguito dalle squadre sportive della Nuova Zelanda prima delle partite internazionali: esso fornisce un vivace esempio di come canto e danza possano essere utilizzati sia come dimostrazione di potere e di forza fisica per gli avversari, sia come mezzo per mettere i giocatori stessi nella giusta mentalità per vincere.
Per quanto riguarda la musica dei tempi moderni, una riflessione va fatta sul fenomeno del “selfie-pop”, una nuova tendenza nella musica popolare. Secondo il giornalista Romano (2013) le attuali pop star, come Rihanna, Lady Gaga, Katy Parry, Ke$ha, Pink, e Black Eyed Peas, sono sempre più portate a presentarsi nelle loro canzoni come persone forti, potenti, sicure di sé, e dedite a soddisfare il proprio Ego. Le loro canzoni non solo implicano un’auto-rappresentazione estremamente positiva, ma sono anche canzoni costruite sul cantante in relazione all’ascoltatore: il messaggio che trasmettono è del tipo “noi insieme supereremo ogni ostacolo che incontreremo perché siamo forti e belli e unici, abbiamo il potere e una grande stima di noi stessi”.
Questa osservazione mostra chiaramente che il tema del potenziamento di sé ha raggiunto il cuore della cultura musicale popolare di oggi. Ma per quanto riguarda il notevole successo di questo tipo di canzoni, sorge la domanda: ascoltarle produce davvero un aumento dell’autostima e, se lo fa, quali meccanismi psicologici potrebbero spiegare questi fenomeni?
Alcune ricerche hanno evidenziato che l’ascolto della musica può effettivamente far sentire le persone più energiche, e implicitamente attivare il concetto di potere (Hsu et al., 2014). La modulazione intenzionale dei suoni può anche ridurre lo sforzo percepito durante l’esecuzione fisica intensa, il che suggerisce che le attività musicali esercitino un effetto positivo anche sull’attività fisica (Fritz et al 2013). L’uso della musica da parte degli atleti prima di importanti gare dimostra chiaramente il potenziale della musica per dare energia. Gli atleti devono essere al massimo della loro fiducia in se stessi, e l’uso corretto della musica potrebbe contribuire notevolmente a tal fine. Infatti, gli psicologi dello sport hanno già discusso la potenziale utilità della musica nel contesto del miglioramento delle prestazioni (Terry e Karageorghis, 2011).
Ma la musica aiuta anche ad alleviare l’ansia, la quale, a sua volta, ha dimostrato di essere correlata negativamente con l’autostima (Brockner, 1984). Una recente meta-analisi per quanto riguarda l’uso della musica per il recupero post-operatorio dopo un intervento chirurgico dimostra che l’ascolto di musica può ridurre il dolore e l’ansia nel periodo post-operatorio e aumentare la soddisfazione del paziente (Hole et al., 2015).
Gli autori suggeriscono che la musica sia un intervento percepito come sicuro, non invasivo e poco costoso, che può avere effetti positivi nel recupero post-operatorio. La capacità della musica di ridurre l’ansia e promuovere l’ottimismo è stata collegata positivamente anche alla nostalgia (Routledge et al., 2008). Cheung et al. (2013) hanno dimostrato che la nostalgia indotta in alcuni soggetti attraverso l’uso di determinate canzoni, promuove le relazioni sociali e aumenta l’autostima, che a sua volta aumenta l’ottimismo.
Secondo un quadro proposto da Crocker e Wolfe (2001) ogni persona ha un livello individuale stabile di autostima (di tratto) che può essere considerato come un punto di riferimento attorno al quale i diversi livelli di autostima di stato (cioè legati al momento che si vive) fluttuano in risposta alle circostanze esterne e ad eventi momentanei.
Vi sono persone che si valutano prendendo in considerazione solo gli aspetti positivi del sé e non quelli negativi, che si illudono di avere il potere di incidere sulla realtà esterna e credono molto nelle proprie capacità: avere queste “illusioni positive” non è considerato un comportamento disadattivo, ma anzi, esso è spesso di aiuto nel soddisfare i bisogni psicologici di tutti i giorni (Taylor e Brown, 1988) e può avere una funzione importante anche per quanto riguarda la salute mentale (Taylor e Brown, 1988; Taylor et al., 2003).
L’autostima gioca un ruolo importante nel benessere e nella felicità. E’ stato riscontrato che un’alta autostima è legata a minore ansia (Brockner, 1984), minori sintomi depressivi (Tennen e Herzberger, 1987), minore perdita della speranza (Crocker et al., 1994), e maggiore soddisfazione nella vita (Myers e Diener , 1995) rispetto a soggetti che hanno scarsa autostima.
Un modo molto intuitivo per pensare all’efficacia della musica come mezzo di auto-miglioramento è il seguente: quando si ascolta una canzone in cui il cantante esprime un auto-giudizio positivo, l’ascoltatore si immedesima nel cantante, e attraverso questo processo adotta e proietta su di sé determinati concetti. Krueger (2014) ha dettagliatamente messo in evidenza come l’ascolto della musica possa essere inteso come un processo cognitivo distribuito, un’estensione della mente, grazie alla musica.
L’ascolto della musica può essere concettualizzato come una forma speciale di processo sociale comunicativo(Cross, 2011), grazie alle capacità empatiche, che sono un meccanismo capace di indurre emozioni (Scherer e Zentner, 2001; Koelsch, 2013; Clarke, 2014). Vischer (1887) ha introdotto la nozione di Einfühlung ( “sentirsi in”) per spiegare come colui che percepisce un oggetto estetico acceda alle profondità psicologiche dell’ opera d’arte e alla sua vita interiore. Il concetto di empatia, che è legato alla nozione tedesca di Einfühlung, è stato definito come “un accesso esperienziale alla soggettività dell’altro” (Colombetti, 2014). Questo stato empatico è paragonabile a quando ci troviamo a rievocare i ricordi del passato, anche quelli non vissuti direttamente, ma che comunque sono capaci di determinare in noi uno stato emotivo.
Alcuni autori (Cone, 1982) ritengono che la persona non possa fare a meno di sentirsi coinvolta quando la musica viene percepita come forma espressiva, come il prodotto di un essere umano che voleva esprimere qualcosa(Cochrane, 2009). Tuttavia, il grado in cui un brano musicale possa essere percepito come espressione di una soggettività musicale varia molto tra le culture e gli stili musicali. Ad esempio nella musica pop, dato il ruolo iconico delle pop star, si può chiaramente vedere come i cantanti diventino oggetti di identificazione empatica.
Le reazioni empatiche alla musica o al musicista non implicano necessariamente l’identificazione con l’altro o una sorta di miscela di sé e dell’altro. Tuttavia, in molti casi si vive una sorta di fusione fra chi fa musica e l’ascoltatore (Clarke, 2014).
Ad esempio, in uno studio qualitativo viene descritto come uno dei partecipanti ascolti una canzone ogni giorno, perché questo lo aiuta a trovare un senso di identità e a capire meglio se stesso. Questo soggetto percepisce le canzoni della sua band preferita come “molto originali, più profonde e più oneste di quelle che ascoltava precedentemente, perché dicono cose che sento e che non riuscirei ad esprimere a chiunque altro” (Greasley e Lamont, 2011).
In questo intenso episodio di ascolto, la musica viene percepita come forma di auto-espressione e di auto-conferma. Un altro esempio può essere trovato in un altro studio, nel quale una giovane donna descrive la sua esperienza nell’assistere ad una performance dal vivo di chitarra flamenco nel modo seguente: “Sembrava … E’ pienamente in accordo con me, con il mio io interiore. Il flamenco esprime quello che sento dentro, la mia anima, i miei sentimenti “(Gabrielsson, 2011).
Quando la musica viene percepita come forma di auto-espressione e di auto-conferma, gli ascoltatori sperimentano le soggettività musicali come parte del proprio sé. Questi processi empatici, questo perdersi nella musica e identificarsi con il cantante sono una caratteristica unica della musica, che oltre tutto avviene in un “ambiente sicuro”, nel senso che l’ascoltatore sa bene che le sensazioni di esaltazione percepite non possono causargli danni (Schubert, 2009).
Secondo Cochrane (2009), una modalità di ascolto empatico può essere spiegata dalla teoria della simulazione, una teoria su come comprendiamo gli altri, che ha suscitato un notevole interesse sia nei filosofi sia nei neuroscienziati (Gallese e Goldman, 1998; Goldman, 2006; Grafton, 2009). La teoria della simulazione presuppone che otteniamo informazioni su cosa pensano gli altri mettendoci nei loro “panni mentali”: in tal modo, la simulazione di ciò che gli altri sentono o pensano ci coinvolge e ci proietta nella posizione dell’altro (Zahavi, 2008).
La musica può fornire una risorsa ambientale di facile accessibilità, che permette un miglioramento dell’autostima grazie a questi processi empatici e all’identificazione con personalità musicali positive (persone sicure di sé, forti, che possono fornire dei “copioni mentali” cui ispirarsi) (Colombetti, 2014).
La musica fornisce insomma soggettività virtuali che possono essere esplorate, ed eventualmente, in una certa misura, adottate. Poiché è stato dimostrato che le persone in possesso di un immagine di sé positiva in mente riportano livelli più elevati di autostima rispetto a coloro che hanno immagini di sé negative (Hulme et al., 2012), un processo empatico in cui si percepisce la personalità musicale in modo positivo permette, in una certa misura, di trasferire questi aspetti positivi sull’ascoltatore consentendo, presumibilmente, un effetto di auto-miglioramento dovuto all’esperienza musicale.
Studiosi di diversa provenienza accademica hanno sottolineato che la funzione sociale della musica è stata fondamentale per lo sviluppo degli esseri umani. Etnologi della musica (Merriam, 1964) antropologi (Suppan 1984, 1986) e psicologi sociali (Loersch e Arbuckle, 2013) hanno sostenuto che la musica svolge varie funzioni sociali in molte aree del mondo e che la reattività musicale (vale a dire, la tendenza ad essere influenzati dalla musica) è spesso legata a motivazioni sociali.
Alcuni tipi di musica possono creare forti identità sociali (Tarrant et al, 2001;. Tekman e Hortacsu, 2002; Lonsdale e North, 2009) essere strumento di coesione sociale (Boer et al, 2011.) e promuovere comportamenti prosociali (Greitemeyer, 2009; Kirschner e Tomasello, 2010).
Un altro aspetto che entra in gioco nei processi di auto-valorizzazione grazie alla musica è il piacere. Il presupposto fondamentale che la musica possa evocare piacere, sia nell’esecutore sia nell’ascoltatore, è documentato fin dall’antichità, e se ne trova menzione sia in Platone, sia in Aristotele. Il piacere veniva considerato la componente chiave nella formazione.
La capacità di evocare piacere è la funzione fondamentale dell’ascolto della musica (Schubert, 2009). Oggi la maggior parte delle persone vivono la musica come una delle fonti più potenti di piacere (Dubé e Le Bel, 2003). Anche le neuroscienze si sono interessate a questo, focalizzandosi nell’esperienza massima del piacere, rappresentata dai brividi (Panksepp, 1995).
Blood e Zatorre (2001) hanno scoperto che vi è una diminuita attività nelle regioni cerebrali che sono associate con l’ansia quando i soggetti che ascoltano musica la ritengono intensamente piacevole e che le esperienze più significative con la musica attivano regioni cerebrali che sono associate con la ricompensa.
Poiché la ricompensa è di solito accompagnata da stati emotivi edonistici e sensazioni di aver ottenuto l’oggetto gratificante desiderato (Chanda e Levitin, 2013), ciò suggerisce che il piacere porti effetti positivi, anche sulla stima di sé. Ma il piacere non è sempre legato a effetti positivi. Si pensi a quanti ascoltano musica triste ritenendola piacevole, anche se essa evoca in loro emozioni negative e sentimenti di depressione (Garrido e Schubert, 2015).
Si può concludere che il piacere nell’ascolto della musica non è vantaggioso di per sé, ma potrebbe svolgere un ruolo importante nella intensificazione e nell’induzione di sentimenti positivi. Il piacere dell’esperienza musicale può dunque portare verso l’auto-miglioramento, ma solo quando è accompagnato da effetti positivi o sentimenti autoreferenziali positivi. L’orgoglio, ad esempio, è positivamente correlato all’autostima (Pelham e Swann, 1989; Brown e Marshall, 2001).
Quando si tratta di stabilire quali stili musicali o pezzi possano essere utili come forma di potenziamento del sé, la risposta diventa difficile. Alcuni pezzi musicali possono produrre un auto-miglioramento grazie alla sensazione di connessione sociale, ma è il modo in cui ciascuno prova piacere ascoltando un brano musicale che può avere i maggiori effetti. Poiché vi è una grande variabilità individuale nel gusto musicale, è difficile definire quale musica possa produrre risultati migliori.
Concludendo, si è visto come la musica riduce efficacemente l’ansia, favorisce il legame sociale, può essere percepita come un amico empatico. Essa gioca un ruolo importante nelle esperienze affettive delle persone nella loro vita quotidiana e può essere una risorsa per l’auto-miglioramento , una sorta di “pillola” ma non si possono fare generalizzazioni a causa dei gusti musicali diversi. Questo è il motivo per cui nella maggior parte dei casi la musica che esercita i maggiori effetti positivi sugli ascoltatori deve essere scelta dagli ascoltatori stessi (Chanda e Levitin, 2013).
Dato che la musica migliora l’autostima e questo è associato con un minor numero di sintomi depressivi (Tennen e Herzberger, 1987), l’ascolto della musica può giovare nel trattamento della depressione. La musicoterapia in effetti aiuta nel trattamento della depressione, anche se il meccanismo esatto rimane incerto (Maratos et al., 2011).
Oggi la musica è onnipresente, grazie allo sviluppo della tecnologia, che permette servizi di streaming e uso di dispositivi musicali portatili, che consentono anche un uso molto personalizzato della musica. Questo è ciò che più di ogni altra cosa funziona, perché la musica deve suscitare empatia, appartenenza, condivisione, come accade ad esempio per la musica rap, che ha una grande capacità di parlare delle realtà presenti nelle comunità urbane in cui ha origine, trasmettendo più di ogni altra cosa il senso di una identità individuale e collettiva (Travis, 2012).
Dr. Walter La Gatta
Saluto del Centro Italiano di Sessuologia
Fonte:
Elvers P. Songs for the Ego: Theorizing Musical Self-Enhancement. Frontiers in Psychology. 2016;7:2. doi:10.3389/fpsyg.2016.00002.
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Il razzismo può essere definito come un sistema organizzato all’interno della società, che causa disuguaglianze evitabili e ingiuste al potere, alle risorse, alle capacità e alle opportunità di alcuni gruppi etnici. Il razzismo può manifestarsi attraverso credenze, stereotipi, pregiudizi e discriminazioni. Il concetto comprende tutto: dalle minacce aperte agli insulti, ai fenomeni profondamente radicati nei sistemi e nelle strutture sociali [Berman G, Paradies Y. 2010].
A20
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Il razzismo può manifestarsi a più livelli e può essere:
– interiorizzato (assimilazione di atteggiamenti, ideologie o convincimenti razzisti nella propria visione del mondo),
– interpersonale (nelle interazioni tra individui)
– sistemico (per esempio, controllo razzista sull’accesso al lavoro, sulle risorse materiali e simboliche all’interno di una società) [Paradies Y., 2006; Hamilton C, Carmichael S. 1967].
Il razzismo esiste come causa di esclusione, conflitto e svantaggio su scala globale [ONU 2009], e i dati esistenti suggeriscono che il razzismo sia in aumento in molti contesti nazionali [Brika J, Lemaine G, Jackson J. 1997; Semyonov M, Raijman R, Gorodzeisky A., 2006; Gallup Poll, 2014, The Guardian. Racism on the rise in Britain, 2014;Markus A. 2014]
Intervista sull'ipnosi
Il comportamento razzista può avere un impatto sulla salute di chi lo subisce attraverso diversi percorsi riconosciuti:
(1) riduce l’accesso al lavoro, la possibilità di trovare un alloggio o di accedere all’istruzione e / o comporta una maggiore esposizione a fattori di rischio (ad esempio, il contatto altrimenti evitabile con la polizia);
(2) sperimentazione di processi emozionali e cognitivi associati alla psicopatologia;
(3) carico allostatico e processi fisiopatologici concomitanti;
(4) partecipazione diminuita a comportamenti sani (ad esempio, sonno e esercizio fisico) e / o maggiore coinvolgimento in comportamenti non salutari (ad esempio, consumo di alcol);
(5) danno fisico a causa della violenza razzista
[Paradies Y. 2006; Brondolo E, Brady N, Libby D, Pencille M. 2011; Harrell CP, Burford TI, Cage BN, McNair Nelson T, Shearon S, Thompson A, et al. 2011; Pascoe EA, Richman LS. 2009;Priest N, Paradies Y, Trenerry B, Truong M, Karlsen S, Kelly Y. 2013; Gee GC, Ro A, Shriff-Marco S, Chae D. 2009]
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I primi studi che mettono in relazione razzismo e salute, fisica e mentale, sono stati condotti a partire dalla metà degli anni novanta negli Stati Uniti [Krieger N, Rowley D, Hermann AA, Avery B, Phillips MT. 1993;Williams DR, Lavizzo-Mourey R, Warren RC. 1994]. Questi studi hanno fornito una prima indicazione sugli impatti negativi del razzismo per la salute di chi lo subisce e hanno dato il via a ulteriori ricerche sull’argomento.
Due grandi revisioni sistematiche sono state pubblicate nel 2006 e nel 2009, per un totale di 253 studi empirici, pubblicati tra il 1984 e il 2007. Queste recensioni si sono focalizzate sul razzismo fornendo una pletora di risultati sulla salute, e hanno scoperto associazioni molto consistenti tra razzismo e cattiva salute mentale. Più di recente, due meta-analisi condotte su larga scala hanno scoperto significativi impatti negativi sulla salute mentale e associazioni un po’ più deboli, ma comunque significative, con la salute fisica [Pascoe EA, Richman LS., 2009,Schmitt MT, Branscombe NR, Postmes T, Garcia A. 2014].
Per quanto riguarda la salute mentale (intesa come benessere) vi sono problemi nell’area dell’autostima e del disagio psicologico, e risultati simili per soddisfazione di vita, ansia e depressione . I loro risultati per quanto riguarda l’associazione cattiva salute mentale e razzismo e discriminazione sono stati confermati anche da una più piccola meta-analisi e da un’altra recensione [Goto JB, Couto PFM, Bastos JL. 2013; Conklin HD. 2011].
I soggetti studiati sono stati in particolare i bambini e gli adolescenti, vari gruppi etnici, tra cui asiatici americani, afro-americani e Latino americani. Per quanto riguarda gli aspetti fisici sono stati osservati in particolare dei cattivi valori per la pressione sanguigna, l’ipertensione e le malattie cardiovascolari scoprendo che vi sono dati allarmanti soprattutto per quanto riguarda la pressione arteriosa, una misura che evidenzia lo stato di stress [Dolezsar CM, McGrath JJ, Herzig AJM, Miller SB. 2014; Brondolo E., Love E. E., Pencille M., Schoenthaler A., & Ogedegbe G. (2011)].].
In sintesi, le recensioni e le meta-analisi finora prodotte hanno evidenziato che la discriminazione subita per motivi razziali è costantemente legata ad una cattiva salute mentale e, meno costantemente, alla cattiva salute fisica.
Ci si è chiesto quali siano i meccanismi attraverso i quali il razzismo colpisce la salute. L’esposizione cronica al razzismo può essere implicata nella disregolazione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che, a sua volta, può danneggiare altri sistemi corporei e portare a risultati fisici, come problemi cardiocircolatori e obesità. L’impatto del razzismo sulla disregolazione delle regioni cognitivo-affettive, come la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore, l’amigdala e il talamo può portare ad ansia, depressione e psicosi [Berger M, Sarnyai Z. 2015]. Gli studi di neuroimaging hanno identificato l’attivazione di queste regioni, in risposta al rifiuto sociale, che sono correlate a sensazioni personali di disagio e sono analoghe alla attivazione delle regioni coinvolte nel dolore fisico.
I dati longitudinali a lungo termine (più di un anno tra l’esposizione al razzismo e l’esito) hanno mostrato associazioni più deboli, anche se ancora significative, tra razzismo e salute. Questa scoperta suggerisce che l’impatto negativo del razzismo può attenuarsi nel corso del tempo, forse a causa della dissolvenza dei ricordi quando l’esposizione è stata breve, o perché ci si abitua al razzismo nel corso del tempo, diventando più forti. [Clark R, Anderson NB, Bulatao RA, Cohen B. 2004; Gee GC, Walsemann KM, Brondolo E. 2012].
Gee, Walsemann e Brondolo [2012] hanno sostenuto che occorre fare attenzione alla tempistica:
(1) la durata dell’ esposizione agli eventi discriminatori;
(2) la tempistica di questi eventi nel corso della vita;
(3) il periodo tra esposizione e insorgenza della malattia.
E’ altamente plausibile che i bambini siano più vulnerabili agli effetti nocivi del razzismo, e che le esperienze di razzismo vissute nei primi anni di vita abbiano più gravi e persistenti conseguenze .
Fonte:
Paradies Y, Ben J, Denson N, et al. Racism as a Determinant of Health: A Systematic Review and Meta-Analysis. Hills RK, ed. PLoS ONE. 2015;10(9):e0138511. doi:10.1371/journal.pone.0138511.
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