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La vergogna e la rabbia nella timidezza cronica

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La vergogna e la rabbia nella timidezza cronica

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Vecchio articolo - Clinica della Timidezza

di L. Henderson, Ph. G. Zimbardo

La Ricerca ha rivelato che le persone timide sono particolarmente portate verso l’autocritica: ce l’hanno con se stesse, perché percepiscono di essere socialmente inadeguate, e sperimentano più spesso la vergogna rispetto ad un gruppo di controllo. Queste tendenze sono particolarmente evidenti nelle persone estremamente timide, che si stanno sottoponendo ad una terapia.

Potrebbe essere interessante dunque chiedersi se le persone timide sono altrettanto critiche verso gli altri e se questa tendenza è maggiore nelle persone timide in trattamento. Se fosse così, i vissuti, a livello interpersonale, di inaffidabilità e risentimento, potrebbero essere diversi dai vissuti conseguenti un senso di inadeguatezza personale, e interessare differenti tipi di strategie cognitive e comportamentali per superare queste tendenze.

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Studi precedenti hanno mostrato che gli adulti cronicamente timidi, sottoposti a terapia, presentano un significativo senso di inaffidabilità interpersonale, unito a risentimento, e che gli studenti timidi della scuola superiore riportano pensieri maggiormente negativi sugli altri rispetto agli studenti non timidi.
Per determinare fino a che punto questi pensieri ed emozioni predicono un comportamento male adattivo e problemi interpersonali, abbiamo utilizzato i risultati della valutazione iniziale di un campione di clienti della Shyness Clinic.

Abbiamo ipotizzato che i punteggi dei clienti sulle misure della vergogna avrebbero correlato con il senso di inaffidabilità, risentimento e problematiche interpersonali, e che avrebbero predetto un comportamento male adattivo. I risultati hanno rivelato che vergogna, risentimento e inaffidabilità personale erano collegati fra loro ed erano anche collegati ad atteggiamenti di evitamento, distanza e ostilità nelle relazioni sociali.

Il risentimento e la vergogna predicevano auto-umiliazioni, comportamenti autodistruttivi e di auto-aggressività. I clienti cui era stata diagnosticato un disturbo di personalità evitante riportavano in misura significativa maggiori sentimenti di vergogna, inaffidabilità e risentimento, così come problemi interpersonali relativi alla freddezza e desiderio di vendetta, di quelli che non avevano ricevuto una simile diagnosi.

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Introduzione

L’associazione di timidezza, vergogna e un sistema di attribuzioni interno è stata frequentemente riportata dalla letteratura clinica e dalla ricerca per quanto attiene i comportamenti sociali negativi (Arkin et!al 1980; Buss, 1980; Girodo et!al 1981; Henderson, 1992; Henderson, 2002; Teglasi, 1982). Gli individui cronicamente e socialmente ansiosi hanno dichiarato che la vergogna era considerato un mezzo di disciplina nelle loro famiglie (Bruch and Heimberg, 1994) e attribuzioni di vergogna e autoaccuse sono state riportate sia da adolescenti sia da adulti (Henderson, 1992; Henderson, 1994; Henderson and Zimbardo, 2001a; Zimbardo, 1977).

I bambini probabilmente si sensibilizzano alle frequenti critiche, sviluppando una sensibilità emotiva crescente verso gli altri nell’anticipazione di stati emotivi dolorosi, e questa vigilanza alimenta la loro reattività emozionale ed instabilità. La vigilanza provoca anche l’interiorizzazione dei comportamenti di rimprovero messi in atto dai genitori, con il risultato che i bambini imparano a rimproverare gli altri così come fanno con sé stessi. (Benjamin, 1993).

L’osservazione clinica e le autodescrizioni dimostrano che gli individui cronicamente timidi rimproverano gli altri così come sé stessi, vedendo gli altri come soggetti altrettanto pericolosi, meritevoli di rifiuto e inaffidabili. (Henderson, 1994; Henderson, 1997; Henderson and Zimbardo, 1998; Henderson and Zimbardo, 2001b).

Inoltre, poiché la vergogna è un’emozione dolorosa, la pratica di proiettare sugli altri le critiche, ha lo scopo di diminuire il dolore prodotto dall’autocritica nell’immediato e di proteggere la propria autostima (Lewis, 1971; Lewis, 1979). Sembra probabile dunque che la pratica di criticare gli altri abbia almeno in parte la motivazione di ridurre le emozioni negative.


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Criticare gli altri ha conseguenze negative sia interpersonali che intrapersonali ed è associato all’ ostilità e al risentimento, auto o etero diretto. (Bartholomew and Horowitz, 1991; Henderson and Zimbardo, 2002; Tangney and Fischer, 1995; Tangney et!al 1992; Tennen and Affleck, 1990). Inoltre, la vergogna è negativamente correlata con i valori relativi all’empatia (Feshbach and Lipian, 1987; Tangney, 1991), che potrebbe modulare la rabbia e ridurre il comportamento potenzialmente male adattivo, oltre alle conseguenze interpersonali di ostlità e ai problemi di salute come la pressione alta del sangue e l’accresciuto rischio di ipertensione (Gentry et!al 1982).

Sia la sensibilità interpersonale sia un senso di minaccia da parte degli altri è stato documentato in uno studio condotto tramite MMPI presso i clienti della Shyness Clinic (Henderson, 1997). Una significativa maggioranza (67%) dei clienti della clinica hanno ricevuto una diagnosi di ‘disordine di personalità evitante’ (APD) in uno studio sulla comorbidità, una diagnosi che implica una sensibilità estrema alle critiche. Una diagnosi di ‘disordine di personalità passiva-aggressiva’ era presente nel 15% dei clienti (St. Lorant et!al 2000). Risultati simili sono stati mostrati in studi sull’ansia sociale e sui disordini da ansia sociale (Alden and Wallace, 1995; Cloitre et!al 1992; Erwin et!al 2003; Herbert et!al 1992; Leary and Atherton, 1986).

Poiché i criteri del DSM per il disturbo di personalità evitante (APD) includono la manifestazione di sentimenti di inadeguatezza e vulnerabilità nei confronti degli altri nelle situazioni sociali, ci si attendeva che sia la vergogna che la rabbia fossero più elevate in individui con APD che in quelli con disturbo di ansia sociale generalizzato, senza APD (Greene, 1991; Henderson, 1997). Vergogna e autocritiche sono stati ridotte con specifiche istruzioni per ristrutturare le modalità di attribuzione delle critiche che i soggetti fanno a sé stessi (Henderson and Zimbardo, 2001).

Per questo è sembrato utile misurare le associazioni d vergogna e risentimento, per vedere sia come esse predicevano le difficoltà interpersonali sia per elaborare specifiche tecniche di ristrutturazione cognitiva per la tendenza a criticare gli altri. (Blalock et!al 1997).

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Per valutare la presenza della vergogna e della rabbia nei clienti della Shyness Clinic e le loro associazioni con le tendenze di evitamento e di aggressività abbiamo usato i risultati dei test dei clienti della Shyness Clinic. Le nostre ipotesi erano: 1) che la vergogna e la rabbia erano correlate positivamente con il nostro campione e con i pensieri negativi sugli altri 2) che i pazienti con disturbo di personalità evitante avrebbero mostrato maggiori sentimenti di vergogna, rabbia, pensieri negativi sull’inaffidabilità altrui di quelli senza APD; e 3) che la rabbia, unita alla vergogna avrebbe predetto auto-umiliazioni, sentimenti di sconfitta personale e tendenza all’ autoaggressività.

Per Il Metodo e i Risultati vedi versione in inglese


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Discussione

I risultati hanno confermato la prima ipotesi, cioè che la vergogna, la rabbia e l’esternazione delle critiche erano elevate in relazione ai campioni di riferimento e correlate l’una con l’altra. La vergogna ed il risentimento erano correlati con l’esternazione di critiche, in accordo con quanto hanno scoperto altri clinici e ricercatori (Lewis, 1971; Scheff, 1987; Tangney et!al 1992; Wurmser, 1981).

I nostri risultati sono significativi inoltre con le recenti scoperte che riguardano il disturbo di ansia sociale (Erwin et!al 2003). I pazienti con APD avevano valori significativamente più alti nella vergogna e nella rabbia, come nella nostra seconda ipotesi, ma non nell’esternazione delle critiche, come misurato dal TOSCA, contrariamente alle aspettative. Comunque i pazienti APD avevano valori significativamente più alti riguardo agli altri, il che fa pensare che questi pazienti possano non essere del tutto consapevoli delle implicazioni dei loro pensieri negativi sugli altri, né delle implicazioni relative ai loro rapporti interpersonali, ritenendo i loro pensieri correlati alla loro loro vulnerabilità e all’atteggiamento naturalmente prudente.

I timidi cronici spesso non sono consapevoli della rabbia e tendono a non esprimerla apertamente. L’osservazione clinica ha mostrato che i successi terapeutici per molti pazienti timidi dipendono dall’insegnare loro ad articolare e esprimere la rabbia in modo costruttivo (Henderson, 1992). I modi nei quali gli individui timidi si comportano quando sentono rancore o rabbia rappresenta un fertile terreno per future ricerche.

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Come avevamo immaginato nella nostra terza ipotesi, la vergogna è un sentimento che predice in modo significativo un comportamento di auto-sconfitta e aggressione passiva. Questa scoperta è alla base del fatto che la vergogna ha un ruolo importante nella formazione di un comportamento non adattivo tra i timidi cronici. Ulteriori studi che possano differenziare l’evitamento sociale causato dalla paura o dalla rabbia sono necessari.

I valori elevati raggiunti nella scala dell’interferenza sul lavoro, come immaginato riguardo alla vergogna e all’esternazione di critiche, mette in luce la significatività del problema per i timidi sui luoghi di lavoro. I trattamenti basati sull’assertività e sulla gestione appropriata della rabbia possono essere molto importanti. Un training sull’assertività comunque non potrà essere sufficiente senza la ristrutturazione specifica dei pensieri automatici negativi, sia sugli altri che su se stessi.

La nostra esperienza clinica ci ha insegnato che avvisando i pazienti ad aspettarsi che il trattamento terapeutico potrà occasionalmente affrontare anche le questioni della vergogna e della rabbia, permette di sviluppare dei programmi per gestire i sentimenti negativi, pianificando anche il controllo delle percezioni, insieme ad altri test, e questo sembra migliorare i conflitti e la demoralizzazione. Parlare di questi argomenti nel momento della valutazione iniziale, fa si che i pazienti parlino al terapeuta di gruppo in forma privata, se non gradiscono esprimere queste emozioni nella situazione di gruppo.

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Possiamo suggerire alle persone in trattamento presso la nostra Shyness Clinic, che i pensieri negativi sugli altri, la mancanza di fiducia, la tendenza a criticare gli altri, come riporta un recente studio, sono un fattore che predice significativamente, in senso negativo, il raggiungimento degli obiettivi personali. (Bortnik et!al 2002).

Traduzione a cura di Clinica della Timidezza. Tutti i diritti riservati

Pubblicazione autorizzata – Traduzione di Walter La Gatta per www.clinicadellatimidezza.it –
Tutti i diritti riservati- Febbraio 2007

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Per spiegare le cause della timidezza e della fobia sociale occorre fare riferimento alle infinite interazioni tra fattori genetico-biologici, evolutivi, ed ambientali. Sembra dimostrato che i fattori ereditari esercitino un ruolo primario nello stabilire gli aspetti strutturali della personalità; l’ambiente poi gioca un ruolo altrettanto fondamentale nel cristallizzare certe predisposizioni biologiche o nell’orientare il soggetto in tutt’altra direzione attraverso l’acquisizione di una buona stima di sé stesso e di un buon repertorio di abilità sociali.

Molti bambini, nati timidi, possono dunque riuscire a superare i loro problemi di inibizione, mentre altri possono rimanere timidi per tutta la vita, a causa delle influenze subite dall’ambiente. In alcuni casi tuttavia l’ambiente può influire ancor più delle predisposizioni genetiche: accade in seguito ad esperienze di vita e di relazione molto dure che riducono fortemente l’autostima e sviluppano comportamenti di forte inibizione sociale. L’esperienza e la memoria personale sembrano infatti agire a livello delle strutture nervose, così come le strutture nervose influiscono sugli aspetti cognitivi di una persona.

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Modello del determinismo biologico

Secondo questo modello la causa della timidezza è da ricercarsi decisamente negli aspetti genetici, piuttosto che in quelli ambientali, familiari o sociali. Ricerche a favore di questa teoria sono ad esempio quella di Kagan, che studiando gemelli omozigoti, cioè nati dallo stesso ovulo e con un patrimonio ereditario identico, ha avuto modo di osservare che se un gemello è timido, lo è anche l’altro, anche se sono vissuti in ambienti diversi.

Altri studiosi, esaminando l’attività elettrica del cervello di bambini introversi ed estroversi, hanno osservato come i primi concentrino il “metabolismo” cerebrale nella corteccia frontale destra (che è anche la parte più legata ai processi emozionali) mentre i secondi mostrino la parte interessata nella zona sinistra della corteccia frontale, la più legata al linguaggio e al pensiero razionale.

La moderna psichiatria sostiene, ormai sempre più convinta, il modello medico delle cause della timidezza e si richiama alle scoperte della neurobiologia e della genetica. Secondo questo modello non c’è alcun dubbio che i fattori genetici determinino la timidezza, come tutti gli altri disagi psichici: i neuroni presenti nel sistema nervoso centrale liberano quantità eccessive o ridotte di uno o più neurotrasmettitori, (come la dopamina e la serotonina, che servono per trasportare dei segnali fra le cellule nervose) alterando l’intensità del segnale emesso; in questo modo la cellula invia il suo segnale alla cellula “sbagliata” o nel “momento sbagliato” e dunque uno dei tanti circuiti cessa di funzionare, o comincia a funziona in modo sbagliato.

Si infrange così l’armonia che regna nella galassia di cellule nervose, con conseguenze che possono andare dalla paralisi alla crisi epilettica, da uno stato d’ansia alla depressione, da una fese euforica all’aggressività. Secondo gli psichiatri è impossibile pensare che il cervello, data la sua complessità, funzioni a livello ottimale in tutte le sue parti e per questo si chiedono sempre più spesso nelle riviste specializzate di psichiatria se non debbano considerarsi ‘patologici’ anche quei comportamenti fin qui considerati semplice espressione del carattere di una persona, come ad esempio la prodigalità, l’avarizia, la tendenza compulsiva ad accumulare denaro in ogni modo, il pensiero magico superstizioso, l’iperreligiosità bigotta, i disturbi del controllo degli impulsi come il gioco d’azzardo o le deviazioni della condotta sessuale.

Se così fosse si potrebbe pensare che almeno il 50% della popolazione sia ‘malata’, da curare attraverso terapie farmacologiche. A detta degli psichiatri, questa terapia di massa potrebbe ridurre gli altissimi costi sociali dovuti ai problemi di comportamento e ridare alle persone quella libertà di pensiero e di scelta che, data la cattiva funzionalità del loro cervello, non hanno.

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La ricerca in corso tende dunque alla scoperta di una sorta di ‘molecole del comportamento’, in particolare di quelle che potrebbero determinare le manifestazioni di debolezza umana. Se queste molecole fossero davvero individuate, questo significherebbe che presto non si dovrebbero più prendere degli ansiolitici aspecifici per curare la timidezza patologica o le fobie sociali, ma dei farmaci appositamente studiati per curare ad esempio la sensibilità nei rapporti interpersonali, l’iperreattività dell’umore, la sensibilità al rifiuto nella sfera dei rapporti sentimentali, la perdita di controllo nell’alimentazione e nel bere, il rifiuto della propria immagine corporea, l’attaccamento patologico, l’ansia di separazione del bambino e dell’adulto.

Pian piano verrebbero cancellati dunque emozioni e sentimenti ed i tanti cervelli del mondo comincerebbero a funzionare tutti più o meno nello stesso modo… Perfino l’amore potrebbe, in una realtà del genere, diventare una ‘patologia del tono dell’umore per cause affettive’ e ci si potrebbe innamorare o disamorare attraverso una pillola. Quello che è difficile capire è se stiamo andando verso un futuro ipertecnologico o se stiamo tornando indietro agli effetti placebo dei filtri d’amore e delle pozioni magiche.

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Modelli psicologici

la timidezzaLe radici psicologiche della timidezza sono sicuramente da ricercarsi nell’ambiente familiare e nelle prime relazioni con le figure genitoriali. Se il bambino nasce in una famiglia blindata, poco numerosa e con pochi contatti sociali, dove anche i genitori hanno atteggiamenti timidi e riservati verso gli altri, dove si parla poco, non ci si scambiano manifestazioni d’affetto, non si esprimono le emozioni, se il dovere conta sempre e comunque più del piacere, come può un figlio diventare estroverso, aperto e fiducioso in sé stesso e negli altri? E’ abbastanza normale che il bambino sviluppi comportamenti caratterizzati dall’inibizione, con uno stile di vita molto riservato, assenza di iniziative, scarsa propensione al rischio e alla competizione.

Dalla famiglia di origine possono venire, oltre che modelli di comportamento inadeguati, anche atteggiamenti educativi sbagliati, come l’essere ipercritici nei confronti dei figli: questo atteggiamento rendendo i figli timorosi di esprimersi, per la paura di sbagliare, di essere osservati, di essere giudicati dagli altri e criticati.

L’imprinting ricevuto nell’infanzia condizionerà tutta la vita adulta, per cui i bambini che sono stati bloccati nella espressione di sé da eccessive ansie, critiche, rimproveri o anche per il troppo amore, sentiranno maggiormente il bisogno di compiacere gli altri, per sentirsi più sicuri di sé attraverso il consenso esterno. Al contrario, un atteggiamento calmo, rassicurante, accettante, dovrebbe consentire lo sviluppo in età adulta di comportamenti più sicuri, con una soglia di tolleranza all’ansia e allo stress piuttosto elevata.

Naturalmente, vale la pena di ricordare che non è solo la famiglia di origine ad esercitare queste potenti influenze sul carattere: sono altrettanto significative anche le prime esperienze scolastiche, il rapporto con gli insegnanti, le relazioni che si stabiliscono con i primi compagni di gioco.

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Modelli sociali

Anche l’ambiente sociale ha una grande influenza nel determinare la timidezza di un bambino: in particolare può insegnare la paura degli altri, la paura di confrontarsi con persone diverse e sconosciute e di adattarsi alle più diverse situazioni.

Il primo luogo in cui il bambino si confronta con il mondo esterno è la scuola materna, dove avvengono il primo importante distacco dalle figure genitoriali ed i primi rapporti con compagni fino a quel momento sconosciuti e con insegnanti che esercitano l’autorità al posto dei genitori, in rapporti non esclusivi con nessuno dei bambini presenti nella classe.

E’ la prima volta che il bambino si trova a fare i conti con le proprie risorse personali, con i propri limiti, le proprie insicurezze: se imparerà presto a gestire l’ansia e le frustrazioni non avrà da grande problemi di timidezza, se invece già a questo stadio di crescita si presenteranno dei problemi di relazione e non si tenterà di porvi rimedio, probabilmente queste difficoltà sociali perdureranno ancora a lungo, anche ben oltre l’età adulta.

A proposito di bambini, vale la pena ricordare come una volta essi venivano lasciati liberi di giocare in cortile, per essere richiamati al momento del pranzo, della cena o della merenda: ggi la paura della criminalità nelle strade fa si che i figli non vengano più lasciati soli, ma siano sempre accompagnati ovunque vadano e questo fino alla fine della scuola elementare o addirittura oltre.

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Che dire poi del gioco? Oggi i bambini passano molte ore a giocare ai videogame in perfetta solitudine e se lo fanno insieme non hanno bisogno di guardarsi negli occhi, di parlarsi, perché il gioco si svolge nello schermo luminoso del computer ed il compagno di gioco non è l’amico a fianco, ma il personaggio che si muove nello schermo, seguendo i comandi dell’amico. Questa assenza di modelli reali, questa impossibilità di sperimentazione di sé stessi nei rapporti sociali non può che influire negativamente sugli aspetti di timidezza del proprio carattere.

Tutto questo avviene in un mondo dove le famiglie hanno sempre meno contatti sociali con i vicini e sono sempre più blindate verso il mondo esterno. E pensare che, paradossalmente, la società di oggi chiede sempre di più alle persone: bisogna raggiungere il successo, avere energia e coraggio, essere sempre i primi, non sbagliare mai, raggiungere tutti gli obiettivi, competere duramente con gli altri, cercare di ‘vendersi’ continuamente, come se la vita fosse un’operazione di marketing.

In questa situazione, rendersi conto della propria inefficienza personale significa rischiare la depressione, il senso di fallimento ed arrivare così a cercare delle compensazioni nell’alcool o nella droga per nascondere le proprie fragilità.

In una società dove le persone che si dichiarano timide e socialmente inibite sono circa il 40 – 50% del totale, non possiamo pensare a questo problema come ad un problema ‘personale’ e vederlo solo come un problema medico o psicologico, ma anche cominciare a pensare ad una patologia della società in cui viviamo, in riferimento ad un modello ideale di salute sociale.

L’accresciuto livello di ansia e fobie sociali dovrebbe essere considerato un segnale di pericolo cui cercare di porre rimedio, perché non si trasformi in una epidemia di gigantesche proporzioni, o peggio, nella ‘normalità’, causata dalla sua frequenza.

Dal libro di Giuliana Proietti La timidezza, edizione Xenia, Milano 2002
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Intervista sull'ipnosi

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