A chi non è capitato di non ricordare qualcosa, che però è lì, a portata di mano, sulla punta della lingua…
Si stima che questa cosa succeda a tutti, con una frequenza di una volta alla settimana. Spesso capita quando si cerca di ricordare qualcosa del proprio passato, il nome di un luogo, di una persona…
A volte si ricordano dei nomi simili, altre volte l’iniziale del nome, ma non il nome stesso.
Ci sono delle specifiche aree del cervello che vengono attivate in questi particolari momenti: poterle studiare, come oggi è possibile, permette di capire meglio la relazione fra conscio e inconscio, la natura frammentaria della memoria ed i meccanismi del linguaggio.
L’avere un ricordo o una parola “sulla punta della lingua” è un effetto collaterale del modo in cui pensa la nostra mente, sostiene Bennett Schwartz, psicologo presso la Florida International University, che studia il fenomeno. Il fatto è che i nomi vengono immagazzinati separatamente dai volti nel cervello, così come il suono di una parola ed il suo significato.
Il problema è che noi tendiamo ad immaginare il cervello come se fosse un archivio ordinato in cui ogni elemento è incasellato nel modo più appropriato: in realtà il cervello è un luogo in cui i ricordi si sovrappongono e che potrebbe somigliare allo studio di uno scienziato disordinato, con tante carte sulla scrivania ed intorno a sé, la cui logica di archiviazione sfugge al profano.
E’ un aspetto generale della mente umana, che succede con tutte le lingue e in tutte le culture, dagli Africani agli Indiani, agli Arabi: tutti hanno un’espressione simile per descrivere questa momentanea impossibilità di ricollegare un’immagine della mente con il suo nome.
L’aspetto più interessante di questi momenti è ciò che essi rivelano sulla metacognizione, cioè il modo in cui noi riflettiamo sul nostro modo di pensare.
Come fa la mente ad archiviare le informazioni? Negli ultimi decenni gli scienziati hanno ritenuto che il cervello avesse delle sue proprie regole di catalogazione, che gli permettessero di ritrovare con una certa facilità tutte le informazioni esistenti. Questo modello si chiama “accesso diretto”, come se il pensiero avesse la possibilità di accedere ai vasti contenuti della memoria.
Forse questo modello di spiegazione era troppo semplice. Ora c’è una nuova teoria che sostiene che il cervello ragioni praticamente in questo modo: se ricordo l’iniziale del nome di questa persona, devo per forza conoscere anche il nome stesso, anche se non riesco a ricordarlo. E questo darebbe l’avvio ad una ricerca, che fa venire alla mente tutti i particolari che riguardano la persona o il suo nome e tutte le altre associazioni, anche fonetiche.
Una ricerca condotta dallo psicologo Daniel Schacter, che lavora ad Harvard, ha dimostrato che questi momenti di ricerca di un’informazione dall’archivio della memoria attivano delle particolari aree cerebrali nei lobi frontali, comprese la corteccia prefrontale e la corteccia cingolata anteriore. I lobi frontali sono il luogo dove avviene il giudizio metacognitivo (cioè la riflessione sul proprio pensiero). A questo punto, una volta che ci rendiamo conto che dobbiamo certamente sapere quel qualcosa che ci sfugge, alcune parti del lobo frontale si attivano per organizzare la ricerca.
Secondo Schacter, questi momenti in cui il ricordo sfugge dimostrano che la memoria archivia le sue informazioni in luoghi diversi del cervello, per cui se pensiamo ad un amico, il suo nome potrebbe essere archiviato in un’area del cervello e il suo volto in un’altra.
Se uno di questi collegamenti fra i vari aspetti dell’informazione si perde, si produce il momento di momentanea amnesia. Una frammentazione simile si ha nella produzione del linguaggio. Ad esempio, quando cerchiamo di ricordare una parola con una certa sillaba iniziale, provando a concentrarci su nomi che hanno un’iniziale simile ,alla fine riusciamo a ricostruire il puzzle. Questo avviene perché riflettere su parole che hanno la stessa sillaba iniziale attiva la stessa area cerebrale che si occupa del riconoscimento del suono di quelle determinate parole.
Con l’età, sempre più parole restano sulla punta della lingua, a causa delle variazioni che gli anni di vita producono sui lobi frontali, in termini di densità e di dimensioni. In questa condizione, i lobi frontali hanno meno possibilità di attivare la ricerca sul resto della corteccia. Questo significa che non è vero che la memoria sparisce, ma che è più difficile riuscire a ritrovare le informazioni perdute.
Ed ecco anche perché, nei momenti di ansia e di imbarazzo, non riusciamo più a ricordare neanche le cose più semplici.
Fonte: The Boston Globe
Dr. Walter La Gatta
Dr. Walter La Gatta, psicoterapeuta sessuologo.
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