La malattia, la diagnosi e la cura psicologica

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Cosa viene prima, in una terapia psicologica, la diagnosi o la cura?

In una terapia psicologica in primis dovrebbe sempre essere formulata una diagnosi, la quale a sua volta dovrebbe orientare il trattamento.

La terapia, infatti, non può mirare solo ad apportare cambiamenti allo stile di vita, oppure essere utilizzata per cercare uno sfogo alle proprie ansie e frustrazioni, senza alcun progetto terapeutico e senza programmazione.  Ogni disturbo psicologico ha dei propri protocolli di trattamento.

Per fare un esempio, una persona ansiosa può essere curata in modo diverso a seconda dei sintomi?

Certamente. Una persona che soffre di disturbo d’ansia generalizzato, ad esempio, ha sintomi specifici, che sono diversi da quelli che prova una persona ugualmente ansiosa, ma che soffre di di disturbo post traumatico da stress. L’ansia è una condizione generale, ma i sintomi possono essere diversi e richiedere trattamenti diversi.

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Cosa può comportare una diagnosi errata?

Una diagnosi errata può portare all’aggravamento dei sintomi e alla perdita di fiducia del paziente nella terapia che sta seguendo. Prendiamo il disturbo bipolare: spesso somiglia molto al disturbo depressivo, ma se la diagnosi è errata il trattamento potrebbe favorire lo sviluppo di disturbi maniacali. Allo stesso modo, curare un disturbo della sessualità senza comprendere le problematiche relative alla relazione di coppia potrebbe portare a sottovalutare situazioni psicologiche che favoriscono le disfunzioni sessuali.

Come si diagnosticano i disturbi nel campo della salute mentale?

Esistono diversi modi per diagnosticare i disturbi della salute mentale, ma inevitabilmente essi richiedono un investimento di tempo (che poi a sua volta incide sull’investimento di denaro). A differenza di quanto accade per la medicina, dove vi sono esami obiettivi, analisi cliniche e test che orientano il clinico verso una diagnosi precisa, in campo psicologico una diagnosi può essere effettuata solo dopo diversi colloqui clinici ed eventualmente l’uso di test diagnostici.

I pazienti, tuttavia, sono spesso impazienti di ricevere una diagnosi, o iniziare la terapia, sia per ridurre i sintomi, sia per spendere di meno, e non vedono di buon occhio la “perdita di tempo” nel cercare la giusta diagnosi, anche se un atteggiamento del genere potrebbe comportare il rischio di ricevere terapie sbagliate.

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Come si fa a capire se il terapeuta sta cercando di formulare una corretta diagnosi?

Il paziente può capirlo se, nelle prime sedute, il terapeuta:

  • Chiede informazioni relative al proprio ambito familiare, alla propria situazione e alla propria storia, presente e passata;
  • Si informa sullo stile di vita (abitudini e comportamenti relativi al mangiare, al dormire, all’uso di sostanze, all’esercizio fisico, alla sessualità);
  • Cerca informazioni in modo neutro, senza esprimere giudizi o punti di vista personali;
  • E’ ben disposto a collaborare con altre figure mediche, scambiando informazioni sul paziente;
  • Richiede la partecipazione in seduta di altri familiari, per ascoltare i loro punti di vista;
  • Si accerta sulla presenza di specifici sintomi.
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Cosa può fare il paziente per aiutare il terapeuta a formulare la diagnosi?

Il paziente può accelerare questo processo di formulazione della diagnosi in vari modi, come ad esempio:

  • Chiedere ulteriori informazioni ai propri familiari relative ai propri sintomi;
  • Proporre al/alla partner di partecipare a una seduta, in modo da offrire al terapeuta un punto di vista diverso o un approfondimento delle problematiche relative alla relazione;
  • Cercare di fornire dati obiettivi, relativamente ai propri sintomi, ad esempio tenendo un diario in cui sono elencati i sintomi e il momento in cui si sono verificati;
  • Essere quanto più possibile sincero. La menzogna al terapeuta non ha senso e comporta un inutile spreco di tempo e denaro;
  • Mostrare apertamente il proprio disaccordo qualora il terapeuta abbia espresso teorie o valori che sono incompatibili con il proprio stile di vita.


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Cosa può fare il paziente per aiutare se stesso nel percorso terapeutico?

  • Tenere traccia dei propri progressi. Se entro i primi tre mesi dall’inizio della terapia non si riscontra alcun cambiamento oggettivo, questo potrebbe significare che occorre parlarne col terapeuta e, eventualmente, cercare un’altra opzione di trattamento.
  • Porre sempre al terapeuta domande specifiche sul motivo per cui ha scelto un trattamento specifico e in quanto tempo, statisticamente, si aspetta dei risultati.

I terapeuti e i loro pazienti devono lavorare insieme per ottenere la migliore diagnosi possibile, in modo da iniziare un percorso terapeutico che possa portare a risultati specifici, in un tempo più o meno prevedibile.

Dr. Walter La Gatta

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