Il mobbing sul posto di lavoro

Il mobbing sul posto di lavoro

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Il mese scorso l’agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) ha lanciato una campagna biennale a livello europeo: “Insieme per la prevenzione e la gestione dello stress lavoro correlato”.

L’ultimo sondaggio d’opinione paneuropeo dell’EU-OSHA ha rivelato infatti che il 51% dei lavoratori europei ritiene che lo “stress lavoro correlato” sia comune nel proprio luogo di lavoro (non a caso si tratta del problema di salute più frequentemente legato all’attività lavorativa in Europa, dopo i disturbi muscolo-scheletrici) e ben quattro lavoratori su dieci pensano che tale stress non venga gestito adeguatamente all’interno della propria organizzazione.

Se questi dati non bastassero per prendere seriamente in considerazione il problema, lIndagine europea fra le imprese, sui rischi nuovi ed emergenti , sempre dell’EU-OSHA, ha rilevato che oltre il 40% dei datori di lavoro considera i rischi psicosociali più difficili da gestire rispetto ai rischi “tradizionali” connessi alla sicurezza e alla salute sul lavoro.

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I lavoratori in questa indagine si lamentano in particolare dei problemi di riorganizzazione del lavoro (72% degli addetti) così come dei problemi relativi alle ore lavorate, o al carico di lavoro eccessivo (66%). Una buona fetta dello stress lavorativo dichiarato è comunque rappresentato dal mobbing (che interessa il 59% dei lavoratori europei, dati EU-OSHA) e che è fattore di preoccupazione non solo per le patologie organiche e psicopatologiche che procura alla persona che lo subisce, ma anche per le problematiche ed i costi sociali che genera: infortuni, assenze per malattia, scarsa efficienza lavorativa sul luogo di lavoro e costi sanitari e previdenziali, oltre che comportamenti devianti.

La parola “mobbing” in italiano significa “accerchiamento”, termine utilizzato dallo psicologo svedese Heinz Leymann, il quale a sua volta lo aveva ripreso dagli studi di etologia di Konrad Lorenz (1971). Negli animali infatti si possono osservare dei comportamenti di accerchiamento, isolamento ed esclusione dalla vita del branco, al fine di costringere la vittima all’allontanamento dal gruppo. L’allontanamento dei soggetti indesiderati dal luogo di lavoro è in effetti lo scopo ultimo del mobbing lavorativo, che non a caso si rivolge a persone che non si adattano alle regole imposte dalla dirigenza o dal gruppo dei colleghi, oppure sono di ostacolo a qualcuno, per ragioni di vario genere, fra le quali non mancano l’invidia, la competizione e perfino la noia.

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La ricerca di Leymann, sviluppatasi in particolare negli anni Ottanta, partì dallo studio dettagliato di casi clinici di infermiere, le quali si erano suicidate, o avevano tentato il suicidio, a seguito di eventi verificatisi sul luogo di lavoro.

Non esiste una definizione universalmente accettata del concetto di mobbing. Un esempio, citato dalla Agenzia Europea per la salute e la sicurezza sul lavoro è il seguente: “il mobbing sul posto di lavoro consiste in un comportamento ripetuto, irragionevole, rivolto contro un dipendente o un gruppo di dipendenti, tale da creare un rischio per la salute e la sicurezza”.

Va detto, tuttavia, che il fenomeno è diffuso anche fuori dell’ambiente lavorativo, con altri nomi: in ambito scolastico si definisce “bullismo”, in ambito militare “nonnismo”. Ultimamente è stata introdotta in letteratura un’altra definizione del mobbing, inteso in una forma attenuata: è il cosiddetto “straining“, che può essere tradotto in italiano con il termine “pressione” (in questo caso il lavoratore può subire anche una singola azione negativa, che però produce i suoi effetti nel tempo, come il demansionamento, o lo svuotamento di mansioni).


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I comportamenti di mobbing possono essere verticali (o “strategici”, se attuati dai datori di lavoro o dai manager aziendali. Il fenomeno è talvolta definito anche “bossing”) o orizzontali (fra pari, cioè fra colleghi). Il “mobbing verticale” trova la sua ragion d’essere nel creare un motivo valido per licenziare un lavoratore o indurlo alle dimissioni (si tratta dell’87,6% dei casi di mobbing – Dati Eurispes 2013). Principali bersagli di mobbing strategico sono i lavoratori appartenenti a gestioni organizzative precedenti, assegnati a reparti da dismettere, da riqualificare professionalmente, divenuti troppo costosi, o non più corrispondenti alle attese dell’organizzazione (per lunghe assenze, malattie, ecc.).

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In Italia sembra che siano interessati al fenomeno del mobbing strategico il 23,5 % degli occupati intervistati, i quali dichiarano di averlo subito almeno una volta da parte del datore di lavoro (Dati Eurispes, 2013), ma naturalmente i dati reali sono sicuramente più elevati, vista l’esigua minoranza di persone che oggi può permettersi di presentare denuncia, in considerazione del particolare periodo di crisi economica che viviamo ed il timore, fondato, di perdere il posto di lavoro. In un anno – dati 2012 – il numero di denunce è infatti sceso da un milione e mezzo a un milione (Belsito, “Lo strano fenomeno del Mobbing”, Cacucci 2012) ed esse riguardano soprattutto dipendenti pubblici, i quali si sentono ancora una categoria “protetta” e dunque hanno un minore timore nello sporgere denuncia.

Comportamenti tipici di “mobbing strategico” riguardano:

 

  •  isolamento fisico del lavoratore (trasferimento in altra sede, blocco dei flussi di informazione strumentali al lavoro, privazione di attrezzature quali computer, telefono, posta ecc.);
  • manipolazione delle relazioni del lavoratore all’interno dell’azienda (diffusione di dicerie sulla persona,sulla famiglia e sugli amici, mancata convocazione a riunioni, esclusione da conferenze e corsi di aggiornamento ecc.);
  • attacchi alla reputazione del soggetto (ridicolizzazione, enfatizzazione negativa dei difetti personali e degli oggetti usati dalla vittima, diffusione di maldicenze ecc.);
  • attribuzione di mansioni dequalificanti, umilianti, degradanti;
  • ferie/permessi revocati o non concessi;
  • molestie sessuali.

I lavoratori che si ritengono vittime del mobbing fra pari rappresentano invece il 39,2% dei casi (Dati Eurispes 2013). Si è osservato che le dinamiche di mobbing si manifestano in genere come una sorta di circolo vizioso in crescendo: all’aumento dei soprusi e della sofferenza della vittima corrisponde un proporzionale aumento dell’indifferenza e della tolleranza verso l’ingiustizia da parte dei colleghi (si assiste infatti alla “deumanizzazione della vittima” e alla “naturalizzazione” della sua sofferenza).

 

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Per superare il trauma dell’isolamento sociale, dell’abbandono e del tradimento subito da parte dei colleghi, la vittima dovrebbe ricevere un aiuto collettivo, sotto forma di empatia e solidarietà, da parte di chi non partecipa agli attacchi di mobbing. Accade tuttavia che i colleghi che non sono direttamente coinvolti nella pratica persecutoria, (limitandosi ad esserne silenziosi testimoni), preferiscano non intervenire in favore della vittima: talvolta per paura, talvolta per banale indifferenza e superficialità. Con questo comportamento essi si rendono “testimoni complici” (o side-mobbers) in quanto fanno ugualmente del male alla vittima, ma lo fanno in modo banale, superficiale, senza consapevolezza, in assenza di pensiero, e dunque senza la percezione della propria responsabilità.

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La vittima di mobbing viene descritta in letteratura come una persona che ama il lavoro ed è desiderosa di fare carriera. Essa tuttavia può mostrare qualche aspetto di fragilità o diversità, oppure avere dei comportamenti che denotano una qualche forma di dissenso dal gruppo. Quando l’aggressività del gruppo si focalizza sulla vittima designata, questa diventa il capro espiatorio del clima organizzativo malato in cui si lavora.La funzione del capro espiatorio è quella di catalizzare su di sé tutte le colpe del malessere collettivo e del desiderio di aggressività, liberando così il gruppo dalle ansie, dalle paure e dal bisogno di distruttività che lo attraversano (Gerli e Curi Novelli, 2012). Le intimidazioni, le minacce, le umiliazioni e la negazione stessa della identità del mobbizzato, allo scopo di farlo/a sentire “meno di un essere umano”, una “non persona” (Beck, 2008) mette seriamente a rischio la salute fisica e mentale del lavoratore.

Il profondo disagio causato dal mobbing può condurre la vittima alla perdita dell’autostima e del ruolo sociale, provocando insicurezza, ansia, depressione, fobie, attacchi di panico, insonnia, paura di affrontare la giornata, vuoti di memoria, vertigini, disturbi del sonno, pensieri autolesionistici e/o suicidari, alcolismo o abuso di tranquillanti, difficoltà relazionali, isolamento sociale e difficoltà a trovare un nuovo inserimento lavorativo (e dunque notevoli problemi familiari ed economici), o anche disturbi post traumatici da stress, simili a quelli provati quando si è vissuta un’esperienza traumatica di altra natura (es. disastri, aggressioni, ecc.). Questi sintomi possono persistere per anni dopo gli avvenimenti che li hanno generati.

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La prevalenza del mobbing è massima in quei posti di lavoro dove vi sono carichi di lavoro eccessivi, richieste contrastanti e mancanza di chiarezza nei ruoli, scarso coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni, gestione inadeguata. Ciò avviene quando i datori di lavoro o i manager tollerano il mobbing, non riconoscendolo come problema, usando uno stile comunicativo inefficace, dando scarsa importanza alla qualità delle relazioni interpersonali orizzontali e verticali, senza individuare dei valori comuni in cui tutti possano riconoscersi. In questi ambienti i manager si limitano eventualmente a tentare di ostacolare o contenere le controversie, ma non fanno nulla per identificare i difetti del sistema e questa situazione si riverbera sulla produttività e sulla redditività aziendale, a causa di un maggiore tasso di assenteismo per malattia, un maggiore tasso di incidenti o di infortuni, una minore efficienza e un clima psicosociale che influenza negativamente anche gli altri lavoratori non coinvolti nel problema.

Per evitare tutto questo le organizzazioni dovrebbero investire di più sulla prevenzione, coinvolgendo i lavoratori negli obiettivi aziendali, formando dei leaders assertivi e partecipativi, riducendo al minimo definizioni imprecise di ruoli e mansioni, che possono produrre incomprensioni e conflitti.

La persona che si sente vittima di mobbing potrebbe a sua volta interrogarsi sulle proprie modalità di risposta alla sofferenza e sulla sua disponibilità alla relazione con gli altri: potrebbe esserci qualcosa di sbagliato anche in lei? Soprattutto è importante che la vittima impari a trasformare la massa informe di emozioni contrastanti che prova in parole (solitudine, sensi di inadeguatezza, vergogna, umiliazione, insicurezza, terrore) acquisendo così maggiore consapevolezza sul proprio malessere. Molto utile è naturalmente leggere articoli sull’argomento, parlarne con altre persone che hanno lo stesso problema o che lo hanno avuto in passato.

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Può essere utile prendersi un periodo di cura e di riposo, che permetta di allentare la tensione psicologica e fare il punto della situazione con maggiore serenità, anche se le assenze dal lavoro possono aggravare le persecuzioni e rendere ancora più tesi i rapporti con l’azienda. A volte la vittima può trovare la soluzione del problema nella richiesta di trasferimento, anche se questa soluzione sarà ovviamente ostacolata se il mobbing è di tipo verticale ed ha lo scopo di indurre il dipendente alle dimissioni.

Se si sceglie di fare una denuncia è bene raccogliere tutto il materiale utile a provare gli abusi subiti (video, audio, fogli scritti) e la scrittura di un diario. Essenziale anche procurarsi accertamenti medici delle sintomatologie psicologiche o fisiche causate dai comportamenti persecutori.

La prima cosa da fare è accertarsi di aver compreso pienamente il concetto di “mobbing”: esso infatti viene frequentemente usato in modo errato dai media e può dar luogo a concezioni errate. E’ sbagliato, ad esempio, utilizzare questo termine in presenza di una battuta pesante o di una critica occasionale ricevuta sul posto di lavoro, così come in presenza di isolati casi di comportamenti poco corretti, o di occasionali conflitti, che avvengono praticamente in ogni contesto lavorativo. Per essere effettivamente considerato “mobbing” il conflitto deve avvenire nel luogo di lavoro e deve durare per almeno sei mesi, in quanto si tratta di un disagio “cronico” e non “acuto” e deve pertanto manifestarsi diverse volte in uno stesso mese.

Nell’iter da seguire, è inoltre importante comprendere se i comportamenti vessatori sono attribuibili al datore di lavoro o ai colleghi, poiché nel primo caso il danno arrecato corrisponde ad una violazione dell’adempimento contrattuale, mentre nel secondo il danno è circoscritto alla regola generale del neminem laedere, principio in base al quale tutti sono tenuti al dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica, ex art. 2043 c.c.). In caso di mobbing verticale (ad es. demansionamento), il lavoratore potrà rivolgersi al giudice del lavoro per ottenere un reintegro nelle mansioni concordate originariamente; nel mobbing orizzontale (es. molestie sessuali), occorrerà adire le sedi penali.

Ovviamente, adire le vie legali comporta un notevole dispendio di energie psico-fisiche ed economiche, che vanno comunque prese in considerazione, oltre a produrre un escalation della conflittualità e dello stress.

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