I bambini piccoli sono razzisti?

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Qualche anno fa una ricercatrice dell’Università di Washington che si occupava dello sviluppo dei comportamenti sociali nei bambini (es. gentilezza e generosità) notò qualcosa di strano: a 15 mesi di età i bambini sembravano più inclini a condividere i giocattoli, o a rapportarsi con alcuni ricercatori rispetto ad altri.

La Sommerville decise dunque di cercare di indagare le ragioni di questo comportamento, scoprendo che i bambini hanno maggiori probabilità di aiutare i ricercatori della loro stessa etnia, un fenomeno noto come “in-group bias”, una sorta di pregiudizio positivo, che porta a favorire coloro che hanno le loro stesse caratteristiche. E questo già a 15 mesi di età.

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Queste particolari caratteristiche relazionali in favore di persone che appartengono al proprio gruppo etnico erano state già osservate in bambini più grandi.

Con un nuovo esperimento la ricercatrice e il suo team hanno allora testato come razza e correttezza (una caratteristica di personalità che i bambini sembrano notare) influenzino i bambini di 15 mesi nella scelta di un compagno di giochi.

I risultati, pubblicati sulla rivista online Frontiers in Psychology, mostrano che già a 15 mesi di età i bambini apprezzano l’equità sociale di una persona: quando ad esempio lo sperimentatore distribuisce equamente dei giocattoli fra vari bambini. I piccoli sono però disposti a passare sopra a questo innato bisogno di equità sociale se vengono favoriti dei soggetti appartenenti alla propria razza (ad esempio se lo sperimentatore non è equo nella distribuzione dei giocattoli, ma comunque favorisce il proprio gruppo etnico).

I bambini sembrano dunque sensibili al modo in cui le persone della loro stessa etnia del bambino vengono trattati rispetto ad una etnia diversa e non solo al modo giusto o ingiusto di porsi dello sperimentatore.

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Questi risultati non significano che i bambini sono razzisti, perché il razzismo implica ostilità, che in questi studi non è stata riscontrata. Si può dedurre che si tratti di “preferenza all’interno del gruppo”.

I bambini di appena tre mesi, infatti, possono distinguere il colore della pelle, mentre a 3 anni sono pienamente in grado di riconoscere le varie etnie. Il pregiudizio all’interno del gruppo, a volte chiamato favoritismo all’interno del gruppo, o preferenza all’interno del gruppo, significa in pratica favorire le persone somiglianti a se stessi. 

La tendenza è quella di attribuire caratteristiche positive al proprio gruppo e caratteristiche negative a un gruppo esterno. Naturalmente i gruppi non riguardano solo l’etnia, ma anche il genere sessuale, l’orientamento sessuale, l’età, lo stato socioeconomico, il tipo di occupazione, di religione, il quartiere, la squadra del cuore…

La classificazione di persone e oggetti è un aspetto normale e non implica razzismo: è una scelta naturale verso le persone simili al proprio gruppo sociale. Non a caso a otto mesi si sviluppa la paura per l’estraneo e questo è parte dello sviluppo psicologico del bambino che comincia a definire la propria identità, sia personale che sociale.

Perché si tratti di razzismo tuttavia, non si tratta di una minore preferenza nei confronti del proprio gruppo, ma di una vera e propria ostilità. I bambini non nascono razzisti, ma se vivono in ambienti in cui le persone hanno atteggiamenti razzisti, a casa, a scuola, nel mondo dello sport ecc. possono sviluppare in modo automatico dei pregiudizi e delle ostilità nei confronti degli “altri”.

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Alcuni studi suggeriscono che se si definisce qualcuno come nero o asiatico o Latino, senza spiegare cosa significano queste etichette, i bambini possono farsi delle idee sbagliate sui diversi gruppi. Quindi, sarebbe sempre bene spiegare il perché di questo modo di definire gli altri: questo significa insegnare la consapevolezza di cosa sia quel determinato gruppo  “diverso”, senza fornire a priori dei pregiudizi del tutto ingiustificati.

Poiché il razzismo viene trasmesso per via culturale, è importante decostruire questi stereotipi, insegnando ai bambini che non tutti i diversi sono, solo per questo, delle persone da guardare con ostilità.

Molte ricerche mostrano che molto dipende anche dalle frequentazioni familiari: se si conoscono e si frequentano solo persone della propria etnia o dei propri gruppi sociali, è impossibile offrire al bambino una visione più aperta di cosa sia la differenza fra le varie etnie.

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A volte non è necessario neanche dirle le cose: il linguaggio del corpo che si mostra nei diversi contesti, spesso senza saperlo, è già di per sé molto eloquente. L’esempio classico a cui pensare è quando si incontra qualcuno con cui non ci si sente tranquilli e dunque si è portati a stringere la borsa molto più forte, oppure a attraversare bruscamente la strada, per prevenire spiacevoli imprevisti: i bambini notano questi comportamenti e naturalmente imparano.

I pregiudizi non riguardano solo l’etnia, come si è detto, ma vari gruppi sociali svantaggiati, come i poveri, i disabili, gli appartenenti ad altre religioni e così via.

Ovviamente questo accade anche all’interno degli “altri” gruppi: anche gli altri possono nutrire pregiudizi nei confronti del proprio gruppo.

I genitori e gli educatori svolgono dunque un ruolo fondamentale nell’aiutare i bambini di tutte le età a conoscere persone “diverse” senza sviluppare pregiudizi, automatici e gratuiti, nei loro confronti. E’ fondamentale ascoltarsi a vicenda, imparare gli uni dagli altri, perché non ci sono migliori o peggiori sul piano etnico, ma solo persone con differenti storie, culture e religioni.

Si tratta di una ricchezza e non di un problema, a meno che non si usi il razzismo per dare un nome alle proprie paure: l’idea che ci sia un responsabile per i nostri malesseri ci fa sentire meglio, ma molto spesso è solo un meccanismo di difesa, per non voler accogliere le proprie fragilità.

Dr. Giuliana Proietti

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