La Kenofobia, o paura di gettarsi nel vuoto

Kenofobia

La Kenofobia, o paura di gettarsi nel vuoto

Intervista sull'ipnosi

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Dr. Walter La Gatta

Molte persone hanno familiarità con l’esperienza di un improvviso bisogno di saltare quando si trovano in un luogo elevato, cioè quando si trovano su un ponte o su una piattaforma panoramica. Nonostante sia un’esperienza nota a molti, il fenomeno è poco studiato e trattato. Vediamo dunque di saperne di più.

Cosa si intende per Kenofobia?

La kenofobia descrive una paura che molti possono aver sperimentato, senza conoscerne il termine preciso: la paura del “richiamo del vuoto”, tanto che i francesi lo chiamano “appel du vide”.

Cosa significa il termine “kenofobia”?

E’ un termine coniato dall’unione delle parole greche “kenos” (vuoto) e “phobos” (paura) e si riferisce specificamente alla paura delle altezze vuote, come quelle incontrate su ponti, grattacieli o balconi senza protezioni. Alcune persone possono sperimentare un senso di vertigine o disagio quando si trovano in situazioni simili, mentre chi soffre di kenofobia può provare una sensazione di forte disagio e un terrore paralizzante.

Per quale motivo si prova questa paura?

Le radici della kenofobia risiedono nelle profondità della psiche e possono essere attribuite a una combinazione di fattori genetici, esperienze personali e di socializzazione, ad esempio dopo un forte shock emotivo, un cambiamento particolare nella vita, un eccessivo stress sul lavoro, o vivere a stretto contatto con un familiare eccessivamente rigido. Da un punto di vista evolutivo, il timore delle altezze (acrofobia) potrebbe derivare dalla necessità di evitare situazioni pericolose che potrebbero portare a una caduta fatale. Tuttavia, la kenofobia può essere amplificata da esperienze negative o traumi passati legati alle altezze, come una caduta o un incidente in un luogo elevato.

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Questo tipo di fenomeno può essere associato con la ideazione suicidaria?

No, ci sono scarsi dati a sostegno di questa ipotesi. Jennifer L. Hames della Florida State University , ha condotto uno studio (“L’impulso a saltare afferma l’impulso a vivere”) su tale fenomeno, che ha chiamato HPP (High Place Phenomenon) evidenziando quanto esso sia comune nella popolazione generale. L’ipotesi di questo gruppo di ricerca è che l’esperienza dell’HPP possa nascere piuttosto da un’errata interpretazione di un segnale interno di sicurezza o di sopravvivenza, per cui le persone particolarmente reattive a tali segnali (es. “stai attento, potresti cadere!”), sono quelle che più frequentemente riferiscono di provare questa sensazione di impulso.

Il gruppo della Professoressa Hames della Florida State University ha studiato 431 soggetti, scoprendo che, tra le persone del campione che non avevano mai avuto idee legate al suicidio, più del 50% rispondeva di aver provato il fenomeno almeno una volta nella vita. Pertanto, gli individui che che avevano sperimentato il fenomeno non avevano necessariamente tendenze suicide; piuttosto, l’esperienza dell’HPP poteva riflettere la loro sensibilità ai segnali interni e affermare in effetti la loro volontà di vivere. Questo dato confuta il legame tra l’impulso e l’ideazione suicidaria e a sfata il pensiero di matrice psicoanalitica che attribuisce tali pensieri a un inconscio desiderio di morte.

I risultati ottenuti dalla Hames sono stati replicati da un altro studio (Teismann, T., Brailovskaia, J., Schaumburg, S. et al.), che ha trovato una presenza della fobia nel 45% dei partecipanti alla ricerca,  che non avevano sofferto di ideazione suicidaria nella loro vita, ma che avevano sperimentato il fenomeno almeno una volta nella vita.

In generale, l’idea che le persone muoiano per suicidio dovuto a “un capriccio” appare improbabile: è vero che l’intervallo di tempo tra la decisione di morire per suicidio e la sua attuazione è spesso breve, tuttavia, il suicidio viene in genere preso in considerazione con largo anticipo, non è mai un gesto improvviso.

Da quale considerazione è nato lo studio pionieristico della Hames su questo argomento?

L’idea nacque dalla considerazione che molti dei suoi amici e colleghi avevano sperimentato la paura di buttarsi sotto un treno, di sterzare verso il traffico in arrivo o di saltare giù da edifici alti, nonostante non volessero morire o pensare al suicidio. La Hames sapeva, da ricerche precedenti, che quasi 1 persona su 7 pensa al suicidio a ad un certo punto della sua vita, ma questa le era apparsa un tipo di esperienza molto diversa. Così Hames e i suoi colleghi definirono il fenomeno High Places Phenomenon (HPP) e lo studiarono, per la prima volta, su 431 studenti universitari della Florida State University.

Quali sono le manifestazione e i sintomi di questa fobia?

I sintomi possono variare da individuo a individuo, ma spesso includono sintomi fisici come sudorazione, tremori, vertigini, nausea e battito cardiaco accelerato, mancanza di respiro, oltre che provare una sensazione generale di perdita del controllo.  Questi sintomi possono limitare significativamente la vita quotidiana della persona, rendendo difficile o addirittura impossibile affrontare situazioni che coinvolgono le altezze.

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Quali sono i tratti caratteristici delle persone che ne soffrono?

Il tratto caratteristico è la sensibilità all’ansia e la paura delle sensazioni corporee tipiche dell’arousal. Una ipotesi è che il circuito neurale della paura reagisca alla situazione inviando un rapido segnale che spinge nella direzione di mettersi in sicurezza, il quale però viene interpretato come impulso, anziché come segnale di sopravvivenza. Questa tendenza a percepire i segnali enterocettivi attribuendo loro una valenza opposta è tipica delle persone con sensibilità particolarmente elevata ai sintomi dell’ansia.

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Di quali altri disturbi soffrono le persone con kenofobia?

Negli studi effettuati (cfr. Teisman) non è stata trovata alcuna associazione significativa tra il fenomeno dei luoghi elevati e l’idea di suicidio. Ciò può essere correlato al fatto che la stragrande maggioranza dei partecipanti al campione soffriva piuttosto di una specifica fobia del volo, che contemplava la paura che l’aereo potesse schiantarsi e non il pericolo di determinati sintomi fisici. Solo a meno del 10% dei partecipanti è stata diagnosticata l’agorafobia, un disturbo che è stato dimostrato essere associato ad una maggiore sensibilità all’ansia.

Il fenomeno potrebbe essere dovuto anche a un disturbo ossessivo-compulsivo?

Si. Per la diagnosi di DOC viene, infatti, spesso presa in esame la paura di agire sotto un impulso involontario. Esempio: “Quando guardo giù da un ponte o da una torre provo una specie d’impulso a gettarmi nel vuoto”. È importante sottolineare però, come già evidenziato nella ricerca, che tali pensieri intrusivi sono sperimentati occasionalmente da gran parte della popolazione, anche se in maniera meno resistente, ansiogena e ripetitiva rispetto alle persone con DOC.

Walter La Gatta
psicologo psicoterapeuta sessuologo
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Questa fobia potrebbe essere anche associata alla così detta “fobia da impulso”?

Si. La fobia di impulso è una forma di disturbo d’ansia caratterizzata da una paura immotivata e persistente di agire impulsivamente.  Da un punto di vista clinico, la fobia d’impulso è considerata una variante del DOC. Le persone affette da questa condizione possono sentirsi profondamente ansiose di fronte a situazioni in cui temono di perdere il controllo e di compiere azioni in modo impulsivo, facendo male a se stessi e agli altri, ed è per questo una fobia molto dolorosa. Anche se non c’è un vero passaggio all’atto, il semplice fatto di sperimentare questi pensieri intrusivi o immagini spiacevoli, fugaci ed egodistonici, ad esempio di contenuto sessuale, violento o blasfemo, può far provare una intensa paura, una dissonanza profonda tra ciò che la persona pensa e vuole, con una richiesta molto alta di controllo dei propri pensieri, per sostenere una sorta di lotta contro se stessi.

Quali sono i pensieri intrusivi che possono venire in mente?

Si tratta di pensieri legati al pericolo, al rischio o all’incertezza in luoghi elevati, come ad esempio:

  • “Adesso salto da questo balcone, dirupo o sporgenza.”
  • ” E se perdo il controllo e salto, anche se non voglio?”
  • “E se spingessi qualcuno giù da questa sporgenza e finissi in prigione?”

Quali sono i più comuni modi che usano le persone per rispondere a questi pensieri?

  • Evitano i luoghi alti
  • Si impongono di non guardare oltre il bordo di un luogo elevato
  • Cercano rassicurazione da familiari, amici, altre persone care sul fatto che non si hanno pensieri suicidi
  • Usano percorsi alternativi o chiusi per evitare ponti, balconi e altri luoghi elevati
  • Si tengono lontano dagli altri quando sono in posizioni elevate
  • Controllano ripetutamente i propri pensieri per individuare eventuali segnali in base ai quali potrebbero reagire di impulso
  • Si ripetono frasi per stare al sicuro: “Non saltare. Non saltare. Non saltare.”

 

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Quali comportamenti sono consigliati per contrastare questa fobia?

Per desensibilizzarsi occorre esporsi agli stimoli minacciosi in una situazione considerata assolutamente tranquilla e rilassante, in cui ci si sente al sicuro.
Esempi:

  • Guardare più volte immagini e video di montagne, edifici alti o giostre di parchi di divertimento
  • Guardare  più volte video tour dei luoghi più spaventosi
  • Trascorrere lunghi periodi di tempo in luoghi alti, in condizioni ritenute sicure

Cosa si può fare per curare questa fobia?

Fortunatamente, esistono diversi approcci di trattamento efficaci per affrontare la kenofobia e aiutare le persone a superare la loro paura. In linea generale, l’approccio terapeutico per questa fobia segue le linee di trattamento utilizzate per i casi di DOC. La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) può essere utilizzata per esporre gradualmente gli individui alle situazioni temute e insegnare loro tecniche di gestione dell’ansia, anche avvalendosi di nuovi strumenti come la realtà virtuale. Può essere anche utile l’allenamento alla resilienza, che mira a rafforzare le abilità di adattamento e la fiducia in se stessi. Naturalmente, se tutto questo non dovesse funzionare, c’è anche l’opzione farmacologica, che consiste in una combinazione di antidepressivi e ansiolitici, preferibilmente da usare nello stesso tempo in cui si segue una psicoterapia.

Dr. Walter La Gatta

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